Babadook

L’operazione non è affatto facile perché abitualmente l’horror non si lascia piegare e trasformare in altro (se n’è accorto persino Stanley Kubrick in «Shining»). «Babadook» non può dirsi interamente risolto, soprattutto quando sembra che i nodi dell’horror vengano al pettine esigendo una sorta di spiegazione. La sua forza intrinseca, però, è tale da riprendersi il film per portarlo proprio dove vuole la regista: nel pieno di una crisi familiare che viene da lontano e che, per rendere tutto ancora più traumatico e di difficile soluzione, ha dovuto inventarsi un mostro del buio che potrebbe distruggere sia una madre che un figlio.

Amelia vive con il figlio Samuel, di sei anni. E sono sei anni che suo marito Oskar è morto in un incidente stradale mentre accompagnava lei all’ospedale per partorire. Appare evidente che in casa Vanek le cose non vanno per il meglio. Lei è una donna che, pur avendo dedicato la vita al figlioletto, cova dentro un rancore che la porta ad accusarlo inconsciamente della morte del marito. Apparentemente votata alla solitudine, non conosce distrazioni al di fuori di un tristissimo vibratore. Lui ha una crescita difficile. Ama la madre, ma avverte qualcosa di respingente che allontana da lui la serenità e lo porta a comportamenti estremi nei confronti dei coetanei che ne causano l’allontanamento dalla scuola. Babadook, una sorta di uomo nero, diventa così una paura concreta su cui riversare ogni insicurezza. Mentre tutto il resto del mondo rimane progressivamente escluso, Amelia e Samuel dovranno affrontare Babadook (ovverosia le proprie mancanze, le proprie coscienze, le proprie paure) per poter tornare a un’ipotesi di esistenza normale.

«Babadook» viene dall’Australia che, fatte salve le problematiche tribali, è una terra più propensa ai misteri psicologici che ai mostri di cartone. E Jennifer Kent, che sa piuttosto bene da dove partire e dove arrivare, gioca abilmente con l’ambiguità dell’assunto cercando finché è possibile di lasciare che il dubbio sull’esistenza del mostro permanga. Contemporaneamente, però, lavora con una certa profondità sui due protagonisti scegliendo consapevolmente due attori, Essie Davis e Noah Wiseman, che di sicuro non si attireranno le simpatie del pubblico in quanto vittime. Lei è piagnucolosa e incline alla depressione, lui invadente e petulante. Così, eliminato l’impedimento della divisione manichea tra buoni e cattivi, l’autrice può condurre il pubblico su una strada che si rivelerà comunque un percorso interiore fino alla constatazione che il mostro viene da dentro. Non nuovo, ma usato con ostinazione e consapevolezza, con una durezza che allontana ogni forma di ironia e con la strana conclusione che, a tutti gli effetti, il pubblico spiazzato non sappia più da che parte stare. In un certo senso simile a «The Hole» di Joe Dante, dove il mostro da affrontare nel fondo della botola era la figura paterna, «Babadook» riconduce tutti gli elementi horror a un realismo che alla fine potrebbe corrispondere a una seduta di autoanalisi. E che, con un tocco non si sa se più ironico o più inquietante, non si risolve con una conclusione interamente positiva.

È probabilmente l’unico caso in cui, una volta affrontate e vinte le paure più riposte, il mostro non abbandona la casa ma viene rinchiuso nel sottosuolo e addirittura nutrito con scodelle di vermi. Il che significa, nel contesto totalmente simbolico del film, che qualunque paura interiore lascia i suoi strascichi.

Certo, «Babadook» deluderà gli appassionati dell’horror seriale, che avrebbero preferito un clone di Freddy Krueger pronto a fare un sol boccone degli incauti sognatori. Jennifer Kent, invece, preferisce associare la paura del buio alla difficoltà di guardarsi dentro e conoscersi. Più che un horror, un film sottilmente psicologico.

BABADOOK di Jennifer Kent. Con Essie Davis, Noah Wiseman, Barbara West, Benjamin Winspear, Hayley McElhinney. AUSTRALIA 2014; Horror; Colore