Ruth & Alex – L’amore cerca casa
Non deve cioè trarre in inganno il fatto che i due protagonisti, sposati da quarant’anni, siano un nero e una bianca («Ci siamo sposati quando era ancora illegale in trenta stati e negli altri venti ci guardavano storto»). In questo senso il film di Richard Loncraine potrebbe essere una specie di sequel di «Indovina chi viene a cena?» di Stanley Kramer, con il quale condivide l’idealismo e la tendenza alla favola. E non serve qualche accenno all’11 settembre e alla caccia a terroristi veri o presunti per farci capire che siamo proprio ai giorni nostri.
Il romanzo di Jill Ciment e la sceneggiatura di Charlie Peters si concentrano più che altro su una necessità, che è tipica dei tempi attuali, e che si riassume nel cambiamento legato a qualche fattore reale e a molti motivi inesistenti. Qui «Ruth & Alex» può aver qualcosa da dire, anche se lo fa con leggerezza e poca volontà di approfondimento. Il risultato è un film godibile a patto di adeguarsi a una lunga serie di luoghi comuni inframezzati da qualche occasionale riflessione del genere come eravamo, come siamo e, per il tempo che resta, come saremo.
Alex è un pittore che predilige i ritratti. Galeotto fu quello di Ruth, amata e sposata quando i matrimoni interrazziali non erano esattamente al top della scala sociale. Ora, dopo quarant’anni di vita in comune, comincia a porsi il problema dell’invecchiamento e di una casa a Brooklyn che li costringe a cinque piani di scale senza ascensore. Si dà che la nipote di Ruth, Lily, sia un’agente immobiliare e che si impegni ad aiutarli a vendere il meglio possibile un immobile che nel corso degli anni ha acquistato un certo valore. Così il loro tempo si divide tra visite di sconosciuti al loro appartamento, l’assistenza al cane Dorothy che soffre di ernia al disco, le inevitabili memorie del passato e, fatalmente, la ricerca di una nuova casa con ascensore. Tutto questo, inevitabilmente, porterà alla considerazione che i due stanno bene dove stanno e che, tutt’al più, smetteranno di festeggiare il Ringraziamento con Lily.
È evidente che tutta la baracca, così come è stata concepita e organizzata da Peters e Loncraine, regge sulle spalle dei due protagonisti. Morgan Freeman, con un’aria sorniona che allontana subito la possibilità di autentica ironia, offre il film su un piatto d’argento a Diane Keaton, che invece di ironia ha praticamente vissuto e si concede persino un paio di inquadrature a Manhattan, sullo sfondo del ponte di Brooklyn, che Woody Allen aveva riservato ad altre. Così, tra schermaglie di coppia, l’elemento empatico del cane ammalato, riflessioni in buona parte scontate sul tempo che passa, qualche insistita iniezione di realtà che resta comunque piuttosto lontana, assistiamo a uno show a due che riconduce «Ruth & Alex» alla matrice della commedia di coppia che affonda le proprie radici nella preistoria del cinema e naturalmente del teatro.
Ne esce un film con qualche accento di sincerità, ma complessivamente più furbo che ispirato, nel quale il lavoro degli attori finisce per avere più importanza di quello del regista. In effetti sono presenti tutti gli elementi della commedia classica: l’ansia, il precipitare degli eventi, i ricordi associati al presente (o viceversa, il risultato non cambia), gli scambi dialettici, il confronto generazionale, l’elemento animale e, a coronamento del viaggio, la constatazione che se il cambiamento non ha ragioni forti è soltanto un modo per adeguarsi ai tempi lasciandosi travolgere dalla frenesia esistenziale. Di conseguenza, tutto fa capo al principio dell’amore come motore principale delle nostre esistenze. Tutto giusto, ma frutto di un lavoro di riciclaggio che privilegia la piacevolezza rispetto alla profondità.