Diamante nero
Crescere, cioè diventare grandi di fuori e di dentro, non è mai un processo automatico. Molto dipende dall’ambiente, dalle frequentazioni, dallo spessore degli educatori, dagli esempi, dalla volontà e dai propositi. Di sicuro crescere essendo una ragazza di colore in una banlieue parigina può presentare molteplici difficoltà.
Céline Sciamma, già autrice di «Tomboy», è evidentemente molto attenta ai fattori ambientali, a quelli etnici, a tutto ciò che può rappresentare un incoraggiamento o un ostacolo. E, essendo autrice che ha scelto il realismo come elemento di stile, non concepisce di costruire «Diamante nero» come una favola a lieto fine. Ma, perseguendo con coerenza e una certa ostinazione un progetto che si avvicini per quanto possibile alla realtà com’è e non come vorremmo che fosse, arriva a un risultato di eccellenza che ci aiuta a capire problematiche, difficoltà, violenze, sogni e illusioni di una generazione che deve fare i conti con alcuni punti fissi: l’influenza familiare, il peso specifico del gruppo di coetanei, la volontà di affrancarsene e camminare con le proprie gambe, la disillusione e la presa d’atto di una vita a metà. Tutto questo senza compiacimenti, senza stratagemmi spettacolari, mediante una rappresentazione essenziale e priva di svolazzi che, pur non mancando riferimenti a un mondo esemplarmente descritto in «Arancia meccanica» o «American History X», avvicina l’autrice al realismo scabro dei Dardenne.
Marieme è una ragazza sedicenne che vive all’estrema periferia di Parigi con la madre, un fratello padrone e due sorelle più piccole. La sua difficile carriera scolastica si arresta davanti all’eventualità degli odiati corsi di recupero e automaticamente i suoi interessi si rivolgono al sottobosco degli adolescenti che gravitano tra piazze e terrazze: niente verde, tutto cemento. Marieme è accolta in una banda di coetanee che, non avendo di meglio da fare, ingaggiano sfide con bande rivali e passano il tempo cercando di affermare una superiorità illusoria. Lei stessa vorrebbe rendersi autonoma: ma da una parte lo stretto controllo del fratello, dall’altra la scarsità di occasioni, dall’altra ancora un andamento quotidiano che prevede rituali sociali tesi verso il nulla, le impediscono di ottenere quel che cerca. Quando si accorge che la sorella sta prendendo la sua stessa strada, sarà costretta a prendere una decisione.
Non aspettatevi da «Diamante nero» una redenzione che porti a qualche conclusione venata di speranza. Tutta la speranza è racchiusa nel pianto di Marieme quando realizza che le sue azioni l’hanno portata in una specie di limbo dove, non più accettata da uno spacciatore, consapevole della necessità di dare un esempio che impedisca alla sorella di commettere gli stessi errori, nell’impossibilità di affermarsi come essere umano con volontà e scelte, si ritroverà da sola.
Céline Sciamma è molto brava a rendere questo straniamento senza retorica né moralismo. Marieme, interpretata da una bravissima Karidja Touré che ha da offrire la propria inesperienza per rendere tutto ancora più vero, non può fare riferimento né alla famiglia né alla scuola per ottenerne modelli praticabili. La scelta conseguente della banda di quartiere la espone a una serie di rischi che si riassumono nell’identificazione della realizzazione con una serie di azioni che in realtà rappresentano un vicolo cieco in quanto assolutamente prive di prospettive. D’altro canto, la scelta morale le costa la solitudine. Né, per altro, era ipotizzabile un qualunque lieto fine che sarebbe suonato comunque falso e posticcio. Se «Diamante nero» è un racconto morale, è necessario che il seguito sia scritto nella vita vera, anche se ci rendiamo conto che problemi del genere vengono da molto lontano e che non è dato vedere una via pratica per risolverli. Ma Céline Sciamma è realista, non fatalista: il fatto stesso della scelta dell’argomento indica una volontà di far conoscere qualcosa perché qualcuno si metta al lavoro per risolverla.