The tribe
Nel 1956 Lorenza Mazzetti, nipote del cugino di Einstein, fu una delle fondatrici del free cinema inglese realizzando «Together», storia senza parole della profonda amicizia tra due sordomuti sullo sfondo dell’East End londinese e della gente del porto. Pensare che in qualche modo questo possa rappresentare un precedente di «The Tribe» di Miroslav Slaboshpitsky è fuorviante. Certo, entrambi i film sono senza parole, né sottotitoli, né voce off. Ma «Together» era proprio la storia di due sordomuti, mentre «The Tribe» è un racconto interamente simbolico sulla violenza che domina il mondo di oggi. Lo si capisce presto quando, dopo un breve preambolo in cui il sordomuto Sergey chiede informazioni su come poter raggiungere l’istituto dove dovrà soggiornare, ci si rende conto che non soltanto i sordomuti, ma tutti i personaggi del film parlano con il linguaggio dei gesti anche quando non parlano con loro.
Dunque, «The Tribe» non rappresenta il mondo dei sordomuti, ma il nostro come se lo fossimo. Si prefigura quindi un mondo nel quale il gesto, l’espressione di un viso, le urla del silenzio hanno molta più importanza di un discorso articolato, quindi del ragionamento. Se consideriamo il fatto che la nazionalità del regista Slaboshpitsky è ucraina, cominceremo a comprendere le sue motivazioni anche da un punto di vista storico e nazionalistico. E comprenderemo bene come, da premesse del genere, di certo non ne uscirà un punto di vista ottimista. Anzi, «The Tribe» è probabilmente uno dei film più pessimisti e fatalisti degli ultimi anni, capace come pochi di entrare a piedi uniti sulle fragili resistenze del pubblico e trascinarlo con sé alla scoperta della malvagità e della disperazione che, secondo lui, dominano il mondo. Perché è comunque evidente che, così come «America oggi» di Altman non riguardava soltanto l’America, «The Tribe» è figlio dell’Ucraina ma non riguarda soltanto quel paese.
Nell’istituto, nel quale vengono a mancare subito figure istituzionali e tutto sembra affidato a un’organizzazione autogestita, Sergey è sottoposto a una sorta di iniziazione che comprende spaccio di droga, favoreggiamento della prostituzione, prepotenze sui più deboli, fino a raggiungere una sorta di posizione che lui crede alta. Ma non è così: il destino è sempre quello di obbedire e subire, non è concesso innamorarsi e gli incontri d’amore devono essere clandestini in luoghi poco romantici (un locale caldaie, ad esempio). E se una delle ragazze scopre di essere incinta, l’aborto clandestino è un automatismo che rappresenta l’unica alternativa alla cancellazione (quindi alla non esistenza). E tutto si ripete ciclicamente senza possibilità d’uscita.
Appare chiaro che Slaboshpitsky racconta storie di ordinaria follia e disperazione che in Ucraina sono all’ordine del giorno. E sceglie di farlo con uno stile nervoso ma non esattamente coinvolgente. «The Tribe» (ma perché sostituire l’originale «Plemya» con un titolo inglese, quando anche «La tribù» sarebbe andato benissimo?) è fatto di lunghi piani fissi e di altrettanto lunghi piani sequenza che rendono molto bene l’idea della vita che non va avanti e della ripetitività delle azioni. La mancanza di parole serve a ribadire la prevalenza dell’istinto sul raziocinio e, in determinati ambienti, l’inutilità di articolare un discorso (oltre ad essere un appassionato omaggio al cinema muto, che Slaboshpitsky aveva presente come referente principale).
Quindi «The Tribe» si configura, con qualche compiacimento di troppo, come un film d’autore destinato a una nicchia che difficilmente raggiungerà il grande pubblico. D’altronde, quando si fa un film così, non si può pensare di scalare le vette degli incassi, ma ci si accontenta (eccome) di avere visibilità nei festival e di portare a casa qualche premio. «The Tribe» ne ha vinti 33, tra cui si segnalano il Gran Premio della Settimana della Critica a Cannes e, come miglior film, al Milano Film Festival. Un esordio da tenere presente.