Youth – La giovinezza
Il titolo inglese, «Youth», gli attori di lingua inglese con presenza di due premi Oscar, l’ambientazione svizzera che consente di adagiarsi su montagne e vallate con una certa tendenza all’estetismo, la location principale in una clinica per ricconi stanchi, annoiati, frustrati, delusi e soprattutto di una certa età che allontana il senso del passare del tempo e colloca il tutto in una dimensione non propriamente reale.
Ma, più di ogni altra cosa, una componente didascalica che prevede la ripetizione di parole ed eventi per rendere non fraintendibile la destinazione del film e per chiarirne, prima con le immagini poi con i discorsi, il significato. Non ci sarebbe niente di male: talvolta si ripete per farsi capire meglio. Ma allo stile di Sorrentino, fatto di allusioni, dettagli grotteschi, ironia e tragedia, immagini e musica, tanta volontà esplicativa non giova. E forse non gli ha giovato neanche la conquista dell’Oscar per «La grande bellezza», che gli ha aperto il mercato americano inducendolo a lavorare soprattutto in quella direzione. Tutto questo per dire che «Youth», occasionalmente affascinante, non è certo tra le sue opere migliori.
Nella clinica-hotel nella cornice delle Alpi svizzere si trovano Fred, ottantenne direttore d’orchestra che si è ritirato dall’attività, e Mick, regista americano che sta componendo la sceneggiatura di quello che a suo dire sarà il suo film-testamento. Uno che non vuole tornare a lavorare, l’altro che non vuole smettere. L’occasione sarà propizia per ricordi, riflessioni, amarezze, esami di coscienza e la presa d’atto che c’è un mondo fuori nel quale continuare a vivere e che nonostante l’inarrestabile scorrere del tempo l’età mentale resta di gran lunga la più importante.
Naturalmente non ci sono soltanto Fred e Mick. C’è la figlia di Fred in crisi esistenziale, una coppia di sposi che non si rivolge mai la parola, un attore americano crucciato per essere identificato sempre con un personaggio che non ama, un calciatore sudamericano sovrappeso. Tutti con qualche rimpianto o frustrazione, tutti alla ricerca di ragioni che probabilmente non troveranno. E Sorrentino, che ha sempre avuto la tendenza a lavorare sull’eccesso più che sulla sottrazione, non riesce a darsi una misura né a concentrarsi su un tema che a lungo andare si rivela piuttosto banale. Né gli giova un andamento che sembra in crescendo ma che rivela in più di un’occasione una certa prevedibilità.
Alla fine ci si deve confrontare con un film che rivela troppo presto le proprie carte e continua a girare (talvolta a vuoto) intorno a simbolismi astrusi, a compiacimenti visivi, a colpi di scena solo presunti e a suggestioni ambientali, musicali e tecniche che non corrispondono ad altrettanta densità di contenuto.
«Youth» parla di talento, di ambizione, di passato e presente, di rimpianti e desideri, senza che nessuno di questi temi assuma un’importanza centrale. Da mettere in conto anche qualche palese errore di percorso, come la presenza del calciatore sudamericano che rappresenta senza ombra di dubbio Maradona e che, in un contesto grottesco e spesso sognante, corrisponde a un’irruzione di realtà della quale non è dato conoscere il motivo. Se tutto questo sia dovuto a errori di calcolo, a eccesso di sicurezza, a un momento di particolare autoconsapevolezza non sappiamo. Certo è che «Youth» trasmette la precisa impressione di un film che, non avendo molto da dire, cerca di farlo nel modo più ingannevole, tentando cioè tutte le strade per affascinare il pubblico e convincerlo di essere latore di importanti messaggi esistenziali.
Michael Caine e Harvey Keitel si fronteggiano con tutta l’ironia consentita dalla vivacità di spirito e dai segni del tempo. Ma la statura d’autore di Sorrentino non ne guadagna. Ed è proprio un peccato.