Mia madre
Potremmo anche provare a tentare un parallelismo tra «Mia madre» e «La stanza del figlio», ma sarebbe un esercizio un po’ sterile. «La stanza del figlio» è una riflessione sull’accettazione del dolore basata su un episodio che non appartiene al vissuto di Nanni Moretti. «Mia madre» è un’analisi approfondita dell’inadeguatezza di chi resta legata direttamente all’esperienza personale dell’autore, che forse per la prima volta ha il coraggio di analizzare cose proprie e persino di analizzare se stesso senza rifugiarsi nell’umorismo stralunato, nel surreale, nel narcisismo, nella presunzione di avere le chiavi di tutto, nell’autoreferenziale ad ogni costo.
E sì che «Mia madre» è un film sfaccettato, complesso, condotto su diversi piani narrativi, sospeso tra realtà vera e sogni, legato trasversalmente all’idea di cinema nel cinema che avrebbe potuto comunque fargli cambiare strada e stornarlo dall’asse principale. Ma questo non accade: Nanni Moretti, che conserva tutte le proprie insicurezze, i tic, le fissazioni, le nevrosi che ben conosciamo, ha ben presente quale sia il tema principale del film e controlla tutto fermamente senza permettere che qualcosa cambi la rotta.
Cambia, Moretti: per la prima volta si tiene in disparte senza entrare a piedi uniti (come faceva, ad esempio, in «Habemus Papam») e affida se stesso al personaggio della sorella Margherita, regista e madre, che sta girando un film sulla vendita di una fabbrica con conseguenti licenziamenti e lotte operaie. Non indulge in umorismo consolatorio, affidando le (critiche) situazioni in qualche modo divertenti al personaggio dell’attore americano Barry Huggins (interpretato benissimo da John Turturro) che nasconde una malattia ereditaria che attacca la memoria dietro la celebrità e un modo di fare un po’ guascone e un po’ gigione che di solito gli attirano le simpatie di tutti. Non si lascia tentare dai luoghi comuni legati alla morte di una madre (la sua, Agata, è venuta a mancare nel 2010 durante la lavorazione di «Habemus Papam») preferendo indicarla come punto di riferimento per molti, ma un po’ meno proprio per chi le è più vicino e dovrebbe quindi conoscerla meglio. Non affronta il problema in forma diretta, come era ne «La stanza del figlio», ma associa in parallelo il deperire della donna alla nascita di un film.
Soprattutto, non si risparmia autocritiche e un’autoconsapevolezza che a qualcuno potrebbe suonare nuova. «Ti prendono a piccole dosi perché si sentono a disagio con te» dice l’ex-convivente a Margherita. E anche, detta dal fratello Giovanni (cioè Nanni Moretti): «Margherita, fai qualcosa di nuovo, di diverso… dai, rompi almeno un tuo schema, uno su duecento. Non riesci ogni tanto a lasciarti andare, ad essere un po’ leggera?». Tutto questo converge (e ci dev’essere stato un gran lavoro per evitare che ogni strada se ne andasse per conto proprio) in un ancora più imprevedibile segnale di speranza affidato all’ultima scena, che potrebbe essere indifferentemente un ricordo o un sogno. «Mamma, a cosa stai pensando?» chiede Margherita. «A domani» risponde la madre sorridendo. E Margherita prima sorride, poi un po’ si rabbuia. Il dolore è una brutta bestia che richiede tempo e pazienza per evolvere in qualcosa di positivo. Ma quella semplice battuta «A domani» implica la necessità di continuare, di andare avanti.
Nanni Moretti, lontanissimo da quella rappresentazione che a un certo punto de «La stanza del figlio» oscillava tra la tortura del pubblico e il sadismo nei suoi confronti, riflette su quel che ha perso, su quanto pensava di saperne, su quello che persone estranee gli hanno fatto scoprire, poi sul proprio lavoro, sull’illusione di saperne di più, sull’importanza degli altri, sulla propria inadeguatezza. E questo porta a una virata nello stile, lontano da compiacimenti e coraggioso nel rileggere se stesso di fronte a un argomento che affrontato «alla maniera di» non sarebbe stato così ricco e toccante.