White God
Prima di occuparci direttamente del film dell’ungherese Kornél Mundruczó «White God», occorrerà ricordare che in Ungheria è in corso una preoccupante avanzata del partito Jobbik, un movimento antieuropeista, fortemente conservatore e dichiaratamente di estrema destra. Quando Mundruczó ipotizza l’introduzione di una tassa sui cani meticci o bastardi, a differenza di quelli di razza che non la subiscono, e quindi mette in scena la volontà di alcuni proprietari di abbandonare i cani al canile o alla strada per evitare di pagare, fa evidentemente riferimento a una situazione più estesa e drammatica che non riguarda i cani, ma le persone. Così l’accoglienza diventa rifiuto e la solidarietà indifferenza.
Detto questo, non si può fare a meno di rilevare come tutte le buone intenzioni di Mundruczó si scontrino con una messa in scena difficilissima che avrebbe avuto bisogno di una mano ferma capace di gestire il simbolismo invece di affastellare generi, sentimenti e tonalità senza uno stile unitario. Il titolo stesso, «White God» (traduzione inglese dall’ungherese «Fehér Isten»), richiede un’attenta riflessione per comprenderne il significato e l’applicabilità al film. Molto cervellotico, fa riferimento al fatto che un sottile razzismo sottocutaneo ci ha sempre portati a rappresentare Dio con la pelle bianca e a dubitare di chiunque facesse diversamente. Come dire che un Dio bianco potrebbe in partenza discriminare le creature di un altro colore. Queste creature non sono i cani del film, che a loro volta rappresentano tutte le minoranze tenute a margine del consesso civile e che potrebbero far sfociare questa discriminazione in una vera e propria rivolta.
La tredicenne Lili vive a Budapest con la madre e il cane Hagen. Quando la donna deve assentarsi per tre mesi, affida Lili al padre Dániel, che non vorrebbe il cane e fa il possibile per liberarsene. Così Hagen è abbandonato per strada e Lili, che lo cerca inutilmente, fatica a capire e a proseguire la sua attività scolastica e di suonatrice di tromba in un’orchestra di coetanei. Hagen è raccolto da sbandati e trasformato in un cane da combattimento. Quando finisce nel canile municipale si ribella e, insieme a un branco ingestibile, si riversa nelle strade seminando il terrore. Forse soltanto la tromba di Lili sarà in grado di fermarlo.
Difficile non pensare a «Gli uccelli» di Hitchcock, che aveva tuttavia un equilibrio e un’ambiguità assai superiori. Mundruczó, che si rivela bravissimo nella direzione di animali perfettamente addestrati (Hagen è interpretato da due cani identici, Luke e Brody), mostra evidenti limiti nell’inserire la tematica canina in un contesto umano.
Se Lili, che Zsófia Psotta interpreta con una certa naturalezza, è un personaggio evidentemente didascalico, sono tutti gli altri umani ad essere un problema. Sia il padre che il direttore dell’orchestra che i balordi di strada che la vicina di casa sono disegnati in modo schematico nel tentativo di rendere l’idea di un mondo ostile e cattivo che inevitabilmente deve condurre Hagen a una sorta di presa di coscienza e alla ribellione.
E anche qui Mundruczó inciampa in un’ambiguità: Hagen si rivolta perché ha preso coscienza dell’ingiustizia che lo circonda o perché la malvagità umana lo ha trasformato in una macchina da guerra? Non avremo risposta: la pacificazione finale al suono della tromba potrebbe essere soltanto una tregua in attesa di una nuova esplosione di violenza. L’autore, sinceramente convinto delle proprie buone intenzioni, non ha tuttavia imboccato la strada migliore per concretizzarle.
«White God» è un po’ surreale, un po’ grottesco, un po’ horror, un po’ ambientalista, un po’ politico, un po’ tragicomico senza che tra tutte queste componenti si venga mai a creare un amalgama. Di certo non ci sono ricordi di Lassie o Rin Tin Tin, ma è sicuro che un punto di riferimento sia stato «Amores Perros» di Alejandro González Iñárritu, non foss’altro per la violenza cieca e anche disturbante del combattimento dei cani. Associare questo alla tematica infantile di Lili e alle velleità simboliche e politiche del film richiedeva tutt’altra statura d’autore.
Da salvare integralmente tutte le scene popolate esclusivamente di cani, addestrati e diretti a meraviglia. Non è un caso se il cast canino si è aggiudicato nel 2014 il Palm Dog Award, manifestazione collaterale al Festival di Cannes.