Foxcatcher – Una storia americana
La storia dei fratelli Schultz, campioni di wrestling, e di John du Pont, miliardario complessato e psicolabile, è realmente accaduta in Pennsylvania nel 1996 ed è stata rievocata in un libro autobiografico da Mark Schultz. Il film che ne ha tratto Bennett Miller («Truman Capote – A sangue freddo» e «L’arte di vincere») ha ottenuto tre nomination ai Golden Globe, cinque all’Oscar e un premio a Cannes per la miglior regia.
Al di là delle licenze storiche e delle vere e proprie inesattezze che comunque non interferiscono in una storia che non vuol essere una cronaca di avvenimenti reali, ma una trascrizione simbolica di modi di essere e psicologie problematiche, «Foxcatcher – Una storia americana» deve rimproverarsi soltanto una durata eccessiva che allunga i tempi, rende problematica la continuità e rischia più di una volta di uscire dall’asse principale del racconto. Quel che resta è un interessante documento su quanta distanza possa separare i sogni dalla realtà, su quanto possano essere pericolose le frustrazioni represse, sulla necessità di solide basi di partenza per non ritrovarsi nel mare in burrasca e, alla fine dei giochi, su quanto i sani valori corrispondenti a Dio, patria e famiglia possano facilmente mutare in ossessioni totalizzanti. Con un’aggiunta forse scontata ma sempre utile da ricordare: è molto difficile che i soldi possano comprare la felicità.
Foxcatcher è una vastissima tenuta di proprietà della famiglia du Pont, arricchitasi con un’industria chimica e tessile famosa nel mondo. L’erede, John Eleuthére du Pont, considera se stesso un patriota, è molto appassionato di armi anche pesanti e, pur avendo un fisico tutt’altro che adeguato, coltiva il sogno della lotta libera. Non potendo interpretarla in prima persona, vuole con sé Mark Schultz, insieme al fratello Dave campione olimpico a Los Angeles 1984, poi campione del mondo nel 1985 e nel 1987. Vedendo in lui quel che avrebbe sempre voluto essere, si autonomina suo mentore e finanzia una squadra che vivrà e si allenerà a Foxcatcher. Quando i risultati non lo soddisfano, convoca anche Dave per ricomporre il team familiare. La storia avrà un epilogo tragico.
Una narrazione superficiale e melodrammatica avrebbe trasformato il film in un dramma a tinte fosche con elementi assimilabili a certi horror familiari. Miller, invece, scarnifica il racconto a rischio di privarlo della componente drammatica e si concentra su due elementi portanti: l’analisi di un personaggio che simbolicamente potrebbe rappresentare uno strato consistente della popolazione americana (John du Pont) e la disamina di una vicenda che a nessun livello prevede alcun vincitore. Quindi, a rischio di incorrere in un insuccesso commerciale, usa valori amatissimi dagli americani per raccontare una storia di sconfitti.
E va anche oltre. Prende un attore muscoloso e florido come Channing Tatum e lo trasforma in un bietolone succube e apparentemente non molto intelligente. Prende un bell’uomo come Mark Ruffalo e lo trasforma in un lottatore un po’ invecchiato e defilato dal centro dell’azione. E soprattutto prende Steve Carell, noto per la sua appartenenza al regno della commedia, gli stravolge i connotati e lo trasforma in un miliardario frustrato, condizionato dalla figura materna, appassionato di armi e pericoloso come tutte le armi a orologeria che attendono il momento di esplodere.
Così «Foxcatcher» diventa anche l’immagine dell’America che, nascosta dietro i valori dello sport e della famiglia, aspetta soltanto di poter premere il grilletto. Senza generalizzare, Miller evidenzia un pericolo molto reale e compensa qualche incertezza narrativa dovuta più che altro alla necessità di sintetizzare gli eventi. E, sotto il trucco, Steve Carell ci fa capire le sue reali possibilità d’interprete.