Le leggi del desiderio
Come dire, in un certo senso, che Muccino tenta in diverse direzioni senza sapere esattamente dove andare. Su questo deve avere un peso non indifferente il difficilissimo rapporto con il fratello Gabriele, che l’ha lanciato nel cinema e con cui ha troncato i rapporti da sette anni per motivi non palesi. Da qui alla decisione di passare alla regia il passo è breve, ma anche piuttosto doloroso. Mentre Gabriele lavora quasi stabilmente in America e sembra aver perduto molta della freschezza originale, Silvio dà l’impressione di essere alla ricerca non tanto di una collocazione cinematografica, ma proprio di se stesso attraverso i film. Sbagliando, andando un po’ a tentoni, mostrandosi più portato ai toni esasperati che ai mezzitoni, ma abbastanza sincero da mettersi in gioco con le proprie insicurezze e i propri difetti. In questo senso «Le leggi del desiderio» è il più illuminante dei tre film diretti.
Giovanni Canton (capelli lunghi e gestualità frenetica, proprio come Tom Cruise in «Magnolia» di Paul Thomas Anderson) è un life coach di straordinario successo popolare che, per rendere ancora più vendibile la propria mercanzia, accetta di condurre uno stage particolare: sceglierà tre candidati tra tutti quelli che faranno richiesta e, nel giro di sei mesi, li trasformerà in persone di successo. I prescelti sono Ernesto, un sessantenne che ha perso il lavoro, Luciana, impiegata in Vaticano e autrice sotto pseudonimo di romanzi a luci rosse, e Matilde, collaboratrice e amante dello sponsor dello stage. I tre dovranno affrontare un vero e proprio addestramento per cambiare look, modo di relazionarsi con gli altri e modo di vita. Salvo scoprire poi, Giovanni compreso, che se il prezzo del successo deve essere l’alterazione della propria natura e la perdita di umanità, forse è il caso di fare un passo indietro.
Muccino è capace di raccontare una storia, ma non di volare alto. I suoi personaggi tristemente de borgata sono irrimediabilmente scontati, macchiettistici e persino caricaturali. Questo si ripercuote sulla qualità dei dialoghi e dei differenti episodi del racconto, finendo per trasformare in commedia romantica una storia che avrebbe tratto maggior giovamento da un serio approfondimento drammatico e da una più compiuta analisi psicologica. Sembra quasi che Muccino non conosca la possibilità di suggerire qualcosa e di conseguenza trovi naturale sparare a mille i dialoghi, le musiche e persino le scenografie. Si dirà che questo comunque corrisponde a un modo di essere contemporaneo: ma un conto è rappresentare un’alterazione, un conto esasperarla finendo per renderla molto più ridicola che realistica.