Timbuktu
La cosa interessante è che i jihadisti non sono originari del posto. In Mali la lingua ufficiale è il francese, mentre loro comunicano esclusivamente in arabo. Come a dire che l’integralismo non è necessariamente una filiazione interna a ogni stato, ma piuttosto una realtà esterna che mira ad assimilare popolazioni intere e contro la quale è molto difficile opporsi. Se quel che per i nativi era fonte di armonia e serenità e di punto in bianco qualcuno decide che non si tratta più di cose lecite, occorre adeguarsi o soccombere. C’è del coraggio nell’operazione di Sissako, che sa benissimo che le sue riflessioni potrebbero non piacere a qualcuno che avrebbe comunque la possibilità di farlo tacere. Per questo motivo è probabile che l’autore finirà per scegliere la Francia come terra d’adozione (anche se le cronache recenti insegnano che in nessun posto ci si può considerare veramente al sicuro). «Timbuktu» è fatto di episodi alternati e concatenati dal minimo comune denominatore dell’azzeramento della libertà.
Non stiamo invocando la trascuratezza formale: ma se «Timbuktu» si fosse lasciato un po’ andare a qualche ruvido gancio nello stomaco, il risultato sarebbe stato più di un bel film, un film vero, giusto e preoccupato unicamente di denunciare invece di racchiudere tutto in un contenitore troppo rassicurante nella sua riconoscibilità. A memoria, diremmo che «Lebanon» di Samuel Maoz e «Sotto le bombe» di Philippe Aractingi rappresentano il nostro ideale di forma giusta per il contenuto scelto.