L’amore bugiardo
Di sicuro il contenitore del thriller che Fincher utilizza per la sua disamina e che manipola a suo piacimento lavorando accuratamente sulla struttura, sui cambiamenti di punto di vista, sulle rivelazioni successive e sulle pause narrative, si dimostra ideale per condurre un gioco (altro non è) pericolosamente vicino alla realtà. Il dato più interessante risiede nella fonte: «L’amore bugiardo» (titolo fastidiosamente esplicativo, meglio l’originale «Gone Girl», secco e generico) è tratto dal romanzo di Gillian Flynn, che ne ha anche curata la sceneggiatura. Una volta visto il film, ci vuole un po’ di tempo per convincersi che quanto abbiamo visto provenga realmente da una penna femminile. Se è vero, infatti, che all’uomo è riservato il ruolo del babbeo, è anche vero che l’alternativa è una donna addirittura diabolica, capace di architettare un piano perfetto al di là di ogni possibile incrinatura per ribadire il proprio ruolo dominante.
In questo senso «L’amore bugiardo» va al di là della rappresentazione di un matriarcato nel quale la donna prevale per senso pratico, acume intellettuale e decisionismo: qui si tratta di una vera e propria trappola per topi nella quale l’uomo cadrà che il formaggio gli piaccia o meno.
È anche probabile che David Fincher fosse il regista giusto per raccontare una storia del genere: la sua predilezione per storie estreme (come «Seven», «Fight Club» e «The Social Network») dietro le quali si nasconde una precisa rappresentazione della realtà sembrava ideale per «L’amore bugiardo». Senza dimenticare le sue storie estreme a fondo perduto, come «The Game», «Panic Room», «Il curioso caso di Benjamin Button» o il remake di «Uomini che odiano le donne», che non nascondono altro se non la sua voglia di esagerare. Alla fine, «L’amore bugiardo» è entrambe le cose: la precisa rappresentazione di una verità inquietante associata a deviazioni del racconto che servono soltanto a distogliere l’attenzione e ad allungare i tempi. Se il film fosse durato meno delle due ore e venti finali, ne avrebbe probabilmente tratto un gran giovamento.
Tra Amy e Nick sembra proprio amore vero. Travolti dalla passione si sposano e, a New York, salgono la scala sociale diventando persone di successo. Poi la crisi, la recessione, la perdita del lavoro e la necessità di lasciare la metropoli per tornare a casa di lui, il Missouri. E un giorno, proprio quello dell’anniversario del matrimonio, Amy scompare. Piccole tracce successive inducono la polizia a sospettare che Nick c’entri qualcosa. Sullo sfondo, i media si appropriano dell’evento trasformandolo in un happening dove la manipolazione e gli ascolti contano più della verità. A lui è difficile gestire la situazione. Soprattutto gli è difficile difendersi da false accuse che non prevedono controprove. Finché Amy ritorna, sotto shock e coperta di sangue. E improvvisamente la popolarità della coppia risale alle stelle. A patto, naturalmente, che Nick accetti tutto: di aver sposato una fredda calcolatrice, di non poter neanche lontanamente pensare di lasciarla, di essere disposto a vivere una vita da dipendente.
La struttura de «L’amore bugiardo» è ben studiata e ottiene l’effetto di coinvolgimento voluto: non un film solo, ma due nei quali la stessa storia è raccontata da due punti di vista diversi. La scelta di Ben Affleck è vincente: nessuno meglio di lui potrebbe incarnare senza sforzo il ragazzone ingenuo che abbocca all’amo. E Rosamund Pike, da parte sua, rende molto bene l’idea della donna che non vorremmo mai incontrare. Fincher, invece, non conosce l’uso del freno e esagera oltre il necessario finendo per pescare addirittura nel repertorio di «Basic Instinct». Così «L’amore bugiardo» interessa senza convincere fino in fondo.