Party Girl
Ma siccome non sempre le intenzioni corrispondono al risultato, possiamo dire che soltanto un paio di propositi sono stati correttamente realizzati. Presentato a Cannes come film di apertura della sezione «Un certain regard», «Party Girl» parla di vocazioni, di abitudini, di tentativi di cambiamento, di umanità, di rapporti familiari, di tempo che passa e di speranze non realizzate.
Angélique è una sessantenne che vive in Lorena, al confine tra Francia e Belgio, e che nella vita ha sempre fatto l’intrattenitrice in un night-club. Strada facendo ha avuto quattro figli, due maschi e due femmine l’ultima delle quali affidata a un’altra famiglia. È ovvio che il trascorrere del tempo la porti a interrogarsi sul (poco o tanto) futuro che resta. Ed è apparentemente ovvio che Angélique prenda in considerazione l’offerta di Michel, camionista pensionato, suo cliente affezionato, che trova naturale chiederle di sposarlo.
Il matrimonio, naturalmente, comporta qualche difficoltà di percorso: dalla riunione dei figli al riprendere contatto con Cynthia, convinta di essere stata abbandonata, alla necessità di abbandonare un ambiente che per Angélique ha praticamente rappresentato casa per molti anni. Michel è gentile e paziente, ma Angélique è irrequieta e poco convinta. Arriverà alle definitive conclusioni dopo una prima notte di nozze non consumata: non è innamorata di Michel, non può pensare di condividere la sua esistenza con lui, le basta la gioia di aver visto i quattro figli riuniti intorno a lei, non resta che la «naturale» conclusione di lasciare la casetta e tornare al locale notturno che le è infinitamente più familiare.
Il film non si pone esattamente questioni morali. Innanzitutto, l’ambientazione in Lorena corrisponde già a un intento geografico che significa difficoltà di appartenenza e mancanza di radici. In secondo luogo Angélique non preferisce la vita notturna a un tranquillo ménage familiare: è semplicemente la vita che conosce, che ha sempre fatto e che, forse per assurdo, le dà maggiore sicurezza. Il che corrisponde, tra le righe, a una profonda diffidenza nei confronti di quella che viene genericamente definita normalità.