Un ragazzo d’oro
Mentre prima era sempre stata data più rilevanza alla madre, che nella vita dell’autore è stata una presenza costante e mai marginale, adesso Avati ha avvertito la necessità di andare alla ricerca della figura che nella sua vita è mancata. Suo padre Angelo, infatti, morì nel 1950 in un incidente stradale, quando Pupi era dodicenne. E si può capirlo quando afferma che la mancanza è emersa fuori dell’infanzia e dell’adolescenza, in età più adulta. «Un ragazzo d’oro», dei cinque, è il più diretto, complesso, psicanalitico e (per l’autore) coinvolgente. Ma non è il più riuscito, per tutta una serie di motivi che magari non saremo neanche in grado di chiarire. Il soggetto è stato scritto da Pupi e Tommaso Avati, padre e figlio, che già avevano lavorato insieme ne «Il bambino cattivo».
In questo, più che in quel film, la motivazione sembra risiedere nella necessità di avere un controcanto generazionale molto vicino anche geneticamente. Quel che manca, però, è la fluidità del racconto, quel tanto di verità che impedisca di considerare i dialoghi semplici battute pronunciate da un gruppo di attori e, per una volta, l’astrazione dal reale che ha sempre contraddistinto l’autore anche nei suoi film sul presente. «Un ragazzo d’oro» interessa, colpisce anche duramente, lascia intravedere una fatica compositiva che deve aver prodotto anche qualche sofferenza. Ma non coinvolge.
Davide Bias, che sogna di fare lo scrittore ma è limitato dal fatto di saper scrivere soltanto racconti, lavora in pubblicità a Milano. La notizia della morte del padre Achille in un incidente automobilistico lo costringe a tornare a Roma per essere vicino alla madre. A Roma, però, svariati indizi lo portano alla scoperta di un padre che proprio non conosceva e che forse avrebbe meritato qualche attenzione in più. Ludovica Stern, che dirige una casa editrice, gli chiede di trovare l’autobiografia che Achille stava scrivendo e, se necessario, di completarla. Davide rifiuta, ma cambierà idea al punto da scrivere ex novo un libro che forse non c’è e da immedesimarsi nella figura paterna al punto da andare incontro a un crollo nervoso.