The Wolf of Wall Street

Qui, però, si assume un rischio che con tutta la maestria, la padronanza del mezzo, il cinismo e gli intenti morali che nessuno gli disconosce non riesce ad evitare: il troppo pieno. Il film parla ovviamente di Borsa, azioni, denaro vero e virtuale, manovre spericolate, totale disinteresse per il cliente in quanto essere umano, donne perennemente a disposizione, cocaina a fiumi, esibizioni di ricchezza e di potenza, sesso come passatempo tra una trattativa e l’altra, una vaga idea di famiglia, un’idea molto precisa di successo.

Per parlare di tutto questo, bisogna mostrarlo. Nel fare ciò, Scorsese sembra fortemente condizionato dall’alta opinione di sé, ma anche e soprattutto dalle dimensioni del film. Ne esce indubbiamente un’immagine allucinante e angosciosa di un ambiente e di un mondo che non conoscono umanità, ma ne esce anche un accumulo di situazioni ripetute (il sesso usa e getta, l’assunzione di sostanze stupefacenti, l’alcool come apparente unico nutrimento) che non contribuisce a rendere più chiara la situazione, ma soltanto ad appesantire la narrazione passando rapidamente dall’angoscia a un senso di soffocamento. Senza contare che la tonalità di racconto adottata da Scorsese, quella di una commedia nera sulla generalizzata mancanza di freni, lo conduce talvolta a rappresentare episodi non perfettamente controllati correndo il rischio, per assurdo, di idealizzare il protagonista nelle sue perverse iniziative o di compatirlo in certe derive esistenziali.

Alla fine Scorsese non può che concludere che l’attività frenetica di Jordan Belfort abbia in sé qualcosa di genetico e che di sicuro, nonostante il successo, la caduta e il carcere, quelli come lui non cambiano mai.

Gli inizi di Belfort, nel 1987, non sono dei più promettenti: il giorno stesso del suo debutto a Wall Street nella Rotschild, infatti, ci fu il crollo della Borsa che causò automaticamente il suo licenziamento. Stimolato dalla moglie, però, Jordan trova lavoro in una finanziaria che ha sede in un garage e qui comincia a scalare il mercato dei piccoli risparmiatori truffandoli con azioni-ombra che fanno guadagnare soltanto il venditore. Il passo successivo è la creazione di un’azienda propria, la Stratton Oakmont, che si espande rapidamente e porta a profitti elevatissimi. Poi l’interesse dell’Fbi, la necessità di far uscire dal paese capitali consistenti dirottandoli verso la Svizzera, l’annuncio del ritiro poi rientrato e infine la condanna a tre anni dopo il tradimento dell’unico, inaffidabile amico. I suoi seminari sulle strategie di vendita, però, continuano con successo.

In «The Wolf of Wall Street» ci sono evidentemente pregi tecnici e profondità di contenuto. C’è un Leonardo Di Caprio al suo massimo, credibile anche nel suo punto debole che di solito sono le escalation emotive. Ci sono comprimari (Jonah Hill, Rob Reiner, Kyle Chandler) tutti al posto giusto. Ma resta un piccolo particolare che non ce lo fa annoverare tra i massimi risultati dell’autore: l’idea di una narrazione sopra le righe per inquadrare un’esistenza sopra le righe, infatti, non tiene conto dei limiti che un autore dovrebbe porsi per evitare di passare (non consapevolmente, ma non fa differenza) dal racconto morale a una sorta di allucinato compiacimento in viaggio tra i generi cinematografici, da «La tempesta perfetta» a «Johnny English».THE WOLF OF WALL STREET (Id.) di Martin Scorsese. Con Leonardo Di Caprio, Jonah Hill, Matthew McConaughey, Margot Robbie, Kyle Chandler. USA 2013; Drammatico; Colore