La mia classe
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Chi si appresti ad affrontarlo deve essere consapevole che si tratta di un problema reale cui l’applicazione di elementi drammatici artefatti potrebbe portare soltanto retorica e sentimentalismo, se non preconcetti e luoghi comuni. Gaglianone, che era partito con l’idea di realizzare un film su un insegnante che alle scuole serali deve far imparare l’italiano a persone che arrivano da Asia, Africa e Oceania, se n’è reso conto ben presto e, temendo di cadere nelle trappole della predica morale e moralistica, ha completamente cambiato orientamento.
«La mia classe», infatti, inizia mostrandoci i luoghi dell’azione e gli uomini della troupe impegnati a microfonare i cosiddetti attori che, mai come in questo caso, non meriterebbero altra qualifica che quella di esseri umani pronti a portare su un set nient’altro che le loro personali esperienze. Si crea subito, così, un rapporto particolare tra lo spettatore e il film: sa che sta assistendo a un film, vede un attore professionista (Valerio Mastandrea) nel ruolo dell’insegnante, ma sa anche che questo film è frutto di un complesso lavoro di interazione tra chi conosce il proprio ruolo e chi invece sa di dover essere se stesso. Come accadeva ne «Lo specchio» di Jafar Panahi, quando la bambina sull’autobus, ritenendo di essere stata guardata male da un elemento della troupe, scendeva e si rifiutava di continuare le riprese dando il là a un esempio di sperimentazione assoluta. Qui un semplice «stop» del regista, senza che l’azione si fermi effettivamente, dà il via a un serratissimo confronto tra un insegnante (attore) e i suoi allievi, dove ciò che accade è frutto semplicemente di reciproci stimoli, quello che nel cinema comico di qualche anno fa si chiamava «dare la battuta».
Il che significa che i problemi degli studenti sono problemi reali e che quando a uno di loro non viene rinnovato il permesso di soggiorno il fatto si è verificato praticamente in diretta e non si tratta di un espediente di sceneggiatura. Questo dà modo a chi guarda di entrare in contatto con un’umanità vera, dalle reazioni autentiche, con gioie e sofferenze non costruite a tavolino. E dà anche modo a Gaglianone e Mastandrea di guardarsi negli occhi e, di fronte a tanti esempi di spontaneità che non suscitano alcun condizionamento in un senso o nell’altro, di prendere atto che il loro lavoro, cioè il cinema, finisce per avere la semplice funzione di mezzo, mai di fine. Come dice Mastandrea lasciandosi prendere la mano dal pessimismo «Quello che famo noi nun serve a ’n c….».