Still life
Senza intellettualismi, con un’attenzione puntata ostinatamente sugli ultimi, con riflessioni ponderate e sensate su senso del dovere, solitudine, altruismo e carità, con una tristezza diffusa che si trasforma improvvisamente in un sorriso rasserenante, Pasolini ci parla di una verità che Fabrizio De Andrè aveva interpretato in senso cinico e fatalista (ne «Il testamento»: quando si muore, si muore soli) e la trasforma in un esercizio di umanità che tocca il cuore. Senza cercare facili consensi, cioè senza ricatti sentimentali o commozione a comando, racconta come un singolo, grigio individuo che ha sempre vissuto passando inosservato riesca nel suo piccolo a trasformare la burocrazia e la routine in una missione che è premio a se stessa, in quanto non prevede l’apprezzamento dei superiori, delle autorità, degli stessi destinatari.
John May è un funzionario comunale che si occupa di decessi. Ovvero, indaga sul passato delle persone morte in solitudine per rintracciare parenti, amici o chiunque potrebbe essere interessato a presenziare alle esequie. Nel caso in cui la ricerca non dia frutti, o anche quando le persone rintracciate non si dimostrano sensibili all’evento, i funerali si svolgono alla presenza del solo May. Evidentemente la sua opera non è ritenuta utile dai superiori, che ne deplorano i costi e la lentezza. Così, in occasione di tagli alle spese pubbliche, è proprio il posto di May a saltare. Gli rimane un ultimo caso, quello di Bill Stoke. Le sue ricerche lo porteranno a contatto con amici, colleghi di lavoro, la ex-compagna e la figlia Kelly. E John, per la prima volta, si interesserà delle persone in quanto tali e non soltanto come elementi del lavoro.
È prevedibile che un personaggio così, senza amici, senza parenti, senza legami al di fuori di quelli strettamente professionali, nel caso in cui dovesse capitargli qualcosa di imprevisto e definitivo, farebbe la fine dei soggetti dei quali si occupava in vita: morirebbe solo. Qui Pasolini, autore anche del soggetto e della sceneggiatura, ha un’idea assolutamente geniale che non diremo e che fa risplendere il finale del film in un modo che non può lasciare indifferenti e che probabilmente accompagnerà il pubblico più sensibile e ricettivo ben oltre i limiti della durata di un film. Vincitore di quattro premi a Venezia 2013, dove è stato presentato nella sezione Orizzonti, «Still Life» ci riconcilia con il cinema che non ha paura di parlare di sentimenti e che, partendo da una profonda solitudine e da un’apparente destinazione tragica, riesce a sterzare bruscamente (in piena coerenza con l’andamento del racconto) e a trasformare il fatalismo in un messaggio di speranza.