Paura e desiderio

Certo, «Fear and desire» è, dopo tre cortometraggi, la nascita di un genio. Ma è anche la dimostrazione pratica della grande intelligenza di un uomo che, partito a testa bassa con ambizioni smisurate, ha capito subito che la strada giusta da seguire era un’altra. Non è un caso se, dopo questo exploit simbolico, Kubrick si ripresentò al grande pubblico con due film noir, «Il bacio dell’assassino» e «Rapina a mano armata», approfondendo gli studi fotografici nel primo e le tematiche esistenziali nel secondo prima del definitivo ingresso nel cinema dei grandi con «Orizzonti di gloria». «Fear and Desire» aiuta a capire come l’ansia esistenziale dell’autore avesse bisogno di poggiare su qualcosa di concreto (un intreccio, una storia) che gli permettesse di muoversi in libertà senza ignorare alcune regole da rispettare, a differenza di questo primo, piccolo film che mostra un’ambizione intellettuale enorme e la convinzione di poter esprimere le proprie idee in un ambito totalmente surreale, un po’ pirandelliano, un po’ kafkiano, simbolico da qualunque parte lo si guardi, a lungo andare incapace di liberarsi delle trappole da se stesso disseminate sul cammino. Kubrick c’è, ma deve ancora uscire dal guscio dell’esordiente di talento convinto di bastare a se stesso.

In una foresta si combatte una guerra. Non ci sono elementi storici. I soldati parlano come noi, ma non per questo sono identificabili, tanto vero che anche il nemico parla come noi. La pattuglia dispersa dopo la caduta dell’aereo deve attraversare le linee nemiche percorrendo un fiume. Ci saranno la costruzione di una zattera, l’incontro con una ragazza del posto, la sua morte per mano di un soldato che recita Shakespeare e sparisce nel buio, l’attacco a un avamposto nemico. A quanto par di capire, la guerra continua.

È evidente che Kubrick non racconta una storia di guerra intesa come conflitto tra popoli, ma una metafora dell’esistenza umana nella quale la guerra rappresenta semplicemente l’impossibilità di vivere in pace con se stessi. L’ufficiale e i soldati parlano poco e pensano molto. Kubrick dà voce ai loro pensieri usando la voce fuori campo, una sorta di ipotesi di coscienza che più che a una riflessione benefica sembra orientare il percorso degli uomini verso la follia (dunque, a quanto pare Terrence Malick ne «La sottile linea rossa» non ha inventato nulla). Ha molte idee questo americano ventiquattrenne proveniente dalla fotografia e dal documentario, ma ancora non sa bene come farle confluire in una sintesi organica. Certo, si intuisce la grandezza in divenire: la grandezza tecnica (i primi piani ripetuti e ossessionanti, le luci e le ombre che si inseguono in una guerra fotografica incessante) e la grandezza tematica (le riflessioni senza uscita, il sovrapporsi di paura e desiderio in un contesto totalmente privo d’amore, le interferenze letterarie che corrispondono all’anticamera della follia, la rigorosa prevalenza della morte sulla vita). Di conseguenza, si assiste con passione ed emozione ai primi passi di un maestro fino al momento in cui i legacci simbolici e intellettuali gli impediscono di dare libero sfogo alle proprie potenzialità, dopodiché si ha la precisa percezione di un inganno svelato e non si può fare a meno di cedere a una sorta di noia creativa parzialmente riscattata da un colpo d’ala del genio: già, perché gli attori Kenneth Harp e Steve Coit interpretano sia il tenente Corby e il soldato Fletcher che il colonnello nemico e il suo aiutante. L’importante è che Kubrick di tutto questo si sia reso conto alla svelta, che abbia tenuto e approfondito l’essenziale e lasciato perdere tutto il resto.PAURA E DESIDERIO (Fear and Desire) di Stanley Kubrick. Con Frank Silvera, Kenneth Harp, Paul Mazursky, Steve Coit, Virginia Leith. USA 1952; Drammatico; Bianco e nero