After Earth
In un certo senso ciò rappresenta il problema che ha sempre contraddistinto la caduta libera della sua carriera da «Il sesto senso» in poi. «Unbreakable» poteva essere un thriller, ma aveva più alte ambizioni simboliche. «Signs» poteva essere fantascienza, ma ambiva a simbologie più psicologiche. «The Village» poteva essere un incubo surreale, ma giocava alla sociologia e all’analisi delle psicosi di massa. «The Lady in the Water» poteva essere una favola nera, ma ambiva a simbologie sociali riferite ai ruoli dei personaggi. «E venne il giorno» poteva essere un catastrofico secco, ma ambiva a simbologie sociali. «L’ultimo dominatore dell’aria», beh, aveva poco a cui ambire.
La caratteristica principale di Shyamalan è quella di ambire a traguardi più alti in un contesto di genere che, puntualmente, gli si rivolta contro e lo porta in una terra di nessuno dove a dominare è spesso la noia. Possiamo dire francamente che con «After Earth» ci risiamo. Da una parte un contesto fantascientifico che prevede una Terra spopolata, anzi abitata soltanto da creature animali particolarmente aggressive, dove un giovane deve percorrere un lungo cammino per recuperare un dispositivo di segnalazione d’emergenza. Dall’altra un racconto di formazione nel quale, facendo particolare riferimento a «Moby Dick», un padre e un figlio devono recuperare un rapporto che in sostanza non hanno mai avuto. La difficoltà, evidentemente, sta nel mettere d’accordo le due componenti.
La Terra è stata abbandonata da mille anni e l’umanità evacuata su Nova Prime. Il generale Cypher Raige, leggendario cacciatore di mostri e rinomato per non conoscere la paura, parte per un’ultima missione portando con sé il figlio Kitai, appena respinto all’esame per diventare ranger. Una pioggia di meteoriti costringerà l’astronave a un atterraggio d’emergenza proprio sulla Terra. E qui, rimasti soli e con l’handicap delle gambe spezzate per il generale, padre e figlio dovranno imparare a conoscersi. E Kitai dovrà imparare a gestire e sconfiggere le proprie paure.
La storia di «After Earth» è di Will Smith, che evidentemente aveva il desiderio di fornire al figlio Jaden una rampa di lancio per il cinema che conta. La prima sceneggiatura è di Gary Whitta, poi riscritta da Shyamalan e rimaneggiata da Stephen Gaghan. Questo può dare un’idea del fatto che ci sia voluto un po’ di tempo per trovare un punto di convergenza, ma anche del fatto che il punto di convergenza non sia stato affatto trovato.
«After Earth», infatti, procede continuamente su un duplice piano narrativo: da una parte Will e Jaden Smith che portano avanti la missione difficile sulla Terra, dall’altra Shyamalan che porta avanti (o così crede lui) la sua tematica simbolica che discende in pari misura dai difficili rapporti tra genitori e figli nella letteratura di tutti i tempi e dall’esplicita citazione di «Moby Dick». Non a caso, il film si chiude su un’immagine dell’oceano nel quale le balene si muovono in libertà, mentre un Achab virtuale (Will Smith con le gambe rotte) ha smesso i panni del generale senza paura per recuperare quelli del padre. Non trovando queste due linee narrative una positiva confluenza, «After Earth» diventa un ibrido: troppo lento per essere un film d’azione, troppo inquadrato in un contesto fantascientifico per poter deviare senza conseguenze.