La grande bellezza
Certo, Sorrentino fa il possibile per rendere la cosa difficile: una Roma apparentemente ridanciana e festaiola attraversata da personaggi in realtà tristi e privi di punti di riferimento, un gelido calo di spiritualità a beneficio del nulla e del degrado interiore, gruppetti sparsi di religiosi che attraversano ogni tanto l’inquadratura, un protagonista intellettuale che ha scritto un solo libro e si è ridotto a fare la cronaca del nulla con servizi giornalistici e interviste strampalate. Tutto questo, e anche altro, c’è. Ma ridurre «La grande bellezza» a un clone felliniano sarebbe un grave errore. Prima di tutto perché, se proprio dovessimo individuare un precedente che indichi in Fellini il movente del film, penseremmo più a «Roma» che a «La dolce vita».
E poi perché il gioco al rimando con Fellini non è obbligatorio e potrebbe essere anche fuorviante, non foss’altro perché c’è un altro nume tutelare che invoca almeno la citazione: un film corale sul degrado di una società apparentemente con una precisa collocazione geografica ma in realtà estendibile al mondo intero non può che evocare il ricordo di «America oggi» di Altman. Detto questo, dovremmo avventurarci nella missione impossibile di raccontare la storia del film che, essendo corale, prevede molti personaggi e pochissimi avvenimenti. Basti sapere che Jep Gambardella, scrittore di un libro e giornalista alla moda, attraversa salotti, ricevimenti, eventi culturali, relazioni umane senza profondità, per arrivare alla conclusione che quel mondo, cui egli stesso appartiene, non è che un romanzo cui manca soltanto qualcuno che metta la parola fine. Intorno a lui ombre di intellettuali, falliti di vario genere, un cardinale che non sa occuparsi dello spirito e il dilagare di una moda che, come Leopardi insegnava già nel 1824, è sempre più sorella della morte.
La scommessa di Sorrentino è impegnativa: raccontare la tristezza di un tramonto che parte da una città e si estende a macchia d’olio sul mondo intero appoggiandosi quasi esclusivamente sulle immagini e relegando le parole in secondo piano, richiede un controllo assoluto della materia e una precisa consapevolezza delle modalità e dell’obiettivo. A nostro parere, per quanto il cinema di Sorrentino mantenga inalterate le proprie caratteristiche di un realismo grottesco che aspira a rappresentare una sovrarealtà parallela nella quale le evidenti tracce del reale si confondono in una poetica al limite del surrealismo allucinato, «La grande bellezza», che vale come testimonianza di stile e radiografia di un malessere, soffre di qualche eccesso. Come tutti quelli che affrontano il degrado a colpi di stile, Sorrentino mostra di cedere a due tentazioni: la prima è quella di generalizzare il pessimismo facendoci scendere in un inferno che in realtà è ancora purgatorio, la seconda è quella di confermarsi troppo innamorato dell’immagine. Questo lo porta a una parte di compiacimento che indebolisce l’assunto cullandosi nella rappresentazione.