Educazione siberiana
Il risultato è sorprendente: un racconto di formazione durissimo, ambiguo e allo stesso tempo poetico, nel quale si evidenziano sopra ogni altra cosa tutte le contraddizioni nelle quali si dibattono individui costretti a rispondere a un preciso codice comportamentale dettato da tradizioni ferree e che potrebbe essere molto pericoloso tentare di trasgredire. Detto questo, bisogna aggiungere che, comunque la si metta, «Come Dio comanda» resta un film molto più duro e violento proprio perché si occupa di storture mentali, mentre in «Educazione siberiana» prevalgono l’ambiguità e (non sembri strano) la poesia.
La comunità della Transnistria è formata dalla razza degli Urka, ivi deportati all’epoca di Stalin. Nonno Kuzya cresce il nipote Kolyma con semplici regole: rispetto per gli esseri umani (salvo i poliziotti, i banchieri e gli usurai), strenua difesa della propria dignità, necessità di fare ciò che va fatto e una fede in Dio tutta particolare. La preghiera alla Madonna suona più o meno «Oh Santa Madre del Santissimo Dio, benedici le nostre armi, indirizza i nostri proiettili e consacra noi cosicché la nostra ira possa diventare la tua».
E Kolyma apprende, recepisce e onora. Il suo amico Yuri, detto Gagarin, invece, prende un’altra strada, quella più veloce verso i soldi. Quando tra i due si mette l’innocente Xenya, corpo di donna e mente di bambina, le tensioni finiranno per esplodere. «Educazione siberiana» è ricchissimo di significati, di riferimenti e di valori visivi. Da una parte, anche al di là del testo di Lilin, è innegabile che il film contenga precise tracce del rapporto tra Noodles e Max in «C’era una volta in America» di Sergio Leone: due ragazzi cresciuti insieme circondati dall’idea della violenza, uno finito in carcere l’altro no, una donna tra i due, un faccia a faccia finale dove avrà modo di emergere con precisione il loro «modo di vedere le cose». Dall’altra una meticolosa analisi della crescita con tutti i suoi rituali, con il tatuaggio inteso come libro aperto sulla propria storia personale, con l’amicizia e la conflittualità, con l’assenza (cioè mancanza di rappresentazione) di pulsioni sessuali.
E poi le immagini: curatissime, talora addirittura troppo estetizzanti, con forti contrasti di luce e ombra, con prevalenza di scene notturne, con una compattezza di stile che dichiara maturità e consapevolezza dei propri mezzi.
E poi c’è nonno Kuzya. Perfetta la scelta di John Malkovich in quanto sempre portatore di una naturale ambiguità che in questo caso equivale a possibile pericolo. Ma soprattutto perfetto il punto di vista che non permette di individuare Kuzya come un «cattivo». Kuzya è un maestro che agisce rispondendo a un codice rigoroso e inflessibile, ma che allo stesso tempo è capace di insegnare ad usare coltello e pistola e a rispettare le creature viventi liberando i colombi perché «la loro casa è il cielo».