Django Unchained
Mi piacerebbe sapere da Quentin Tarantino quali siano state le sue finalità nel cimentarsi direttamente (perché indirettamente l’aveva già fatto più volte) con il western. L’impressione è questa: Tarantino non ha aderito pedissequamente a un genere classico, cioè non ha organizzato un’operazione-nostalgia come poteva essere «Silverado» di Kasdan; d’altronde, non ha affrontato il genere criticamente sull’esempio dell’amatissimo Sergio Leone; neppure si può dire che abbia abbracciato una deriva ironica nel senso di smontaggio e rimontaggio delle regole del genere; eppure questi tre elementi sono presenti in «Django Unchained», sparsi nelle immagini, nei dialoghi, nella compilation musicale. Ma nessuno di essi è prioritario e sembra più dovuto a un fattore di eclettismo che non di scelta di destinazione.
Alla fine tocca concludere che, per quanto strano possa sembrare, Tarantino non ha realizzato un western, né tanto meno una requisitoria contro la schiavitù, né una storia surreale casualmente ambientata nel Mississippi alla metà dell’Ottocento, né un semplice omaggio al West meno classico (quello di Corbucci e Castellari) che a ben guardare fornisce soltanto il titolo. La schiavitù, certo, è ben presente, ma non è quella storica che il Presidente Lincoln lottò per abolire: è quella di un giocatore (Tarantino, naturalmente) che non riesce a liberarsi del vizio del gioco e che ad esso sacrifica qualunque ambizione più alta cui comunque potrebbe puntare.
A conti fatti «Django Unchained» è un lunghissimo collage di immagini, suoni e colori all’interno del quale i personaggi si dividono in simboli e caricature senza che si ponga mai un problema di carattere o psicologia. Se questo potrà deliziare i fan irriducibili di Tarantino, tiene noi a debita distanza. Le ragioni che in «Bastardi senza gloria» ci avevano indotto a parlare di un’opera divisa in due che comunque non era possibile liquidare con un semplice prendere o lasciare, qui decadono. «Django Unchained», a nostro modo di vedere, si può lasciare senza alcun rimpianto.
Il film si apre sulle note di «Django», composta da Luis Enriquez Bacalov e cantata da Rocky Roberts. Anche i titoli di testa, per carattere e colore rosso, evocano quelli del film di Corbucci con Franco Nero. Django Freeman («uomo libero», beffarda ironia) è uno schiavo che il cacciatore di taglie tedesco (già, prima del western italiano c’era stato anche quello tedesco della serie «Winnetou») King Schultz libera per farsi aiutare a riconoscere tre ricercati. Dopodiché i due fanno società in previsione di raggiungere il Mississippi, dove il latifondista Calvin Candie tiene in catene Broomhilde von Shaft, moglie di Django. Finirà in un bagno di sangue, con Django e signora che si allontanano a cavallo sulle note di «They Call Me Trinity» di Franco Micalizzi.
Il giocatore Tarantino, dichiarati amore senza fine per il western spaghetti e disinteresse per quello americano classico che non sia la variante iperviolenta di Peckinpah, si diverte a stravolgere i personaggi trasformandoli in caricature di se stessi, soprattutto per quanto riguarda il reparto cattivi. Il Candie di Leonardo Di Caprio, che ha in Samuel L.Jackson un anomalo e bizzarro consigliere, non fa paura. Il King Schultz di Christoph Waltz, con il suo parlare forbito e la sua pistola veloce, diverte per qualche minuto, poi ripete e stanca.