Cuore e cervello nel gelo del futuro: «A.I./INTELLIGENZA ARTIFICIALE»

DI FRANCESCO MININNI

Un progetto di Stanley Kubrick, forse il più pessimista degli uomini, affidato a Steven Spielberg, forse il più ottimista, era attraente. Immaginare come avrebbero potuto due personalità così forti e diverse convivere nel medesimo contenitore, apriva orizzonti sconfinati. Su «A.I.», ovvero «Artificial Intelligence», liberamente ispirato a un racconto di Brian Aldiss, erano aperte le scommesse. Sarebbe stato un Kubrick senza Kubrick o uno Spielberg senza Spielberg? In realtà la tendenza più diffusa indicava che sarebbe stato uno Spielberg senza Kubrick, ovvero che il progetto originale sarebbe stato rimodellato da Spielberg sulla base delle proprie esperienze.

E invece «A.I.», imperfetto e traballante come tutti i burattini senza fili, è un film affascinante e soprattutto spiazzante. Non ci assoceremo al coro di voci contrarie che da più parti si sono levate, spinte anche da un preconcetto che è il peggior nemico dell’obiettività. Vi suggeriamo anzi di non commettere l’errore di archiviare «A.I.» nel ripostiglio degli oggetti inutili e di giudicarlo invece per quel che è. «A.I.» non è né un film di fantascienza né un atto di presunzione: è soprattutto un atto d’amore. In un futuro sempre più lontano (e sempre più vicino) il robot ha assunto un ruolo importante. Ma il creatore vuole di più. Nasce così David, un robot-bambino capace di sentimenti. Affidato a una coppia il cui unico figlio, gravemente ammalato, sopravvive in stato di ibernazione, David riesce a farsi accettare.

Ma quando le cose cominciano ad andare bene, il figlio torna a casa guarito. In una situazione insostenibile, non può essere che David lo sconfitto: abbandonato dalla madre e convinto che solo come bambino vero potrebbe essere nuovamente accettato, David vagherà in un mondo al tramonto alla disperata ricerca della Fata Turchina. «A.I.» è rigorosamente diviso in tre parti separate da due lunghe dissolvenze in nero. Attraversato da un doloroso pessimismo e da un’idea di sconfitta dell’uomo che sono tipici di Kubrick, cerca persino di rendere omaggio al suo stile algido, alle sue esplosioni scenografiche, al suo distacco. Salvo recuperare penetranti accenti di umanità nel rapporto di David con la madre e nella sua volontà di essere un bambino vero, quindi di diventare mortale.

La grande battaglia di «A.I.», non vinta fino in fondo, è quella di non farci mai dimenticare che David, anche se con le fattezze rassicuranti di Haley Joel Osment, è un «Mecca», ovverosia un robot, ovverosia un giocattolo che, costruito dall’uomo, gli sopravviverà. E che, potendo vivere per sempre, un giorno potrebbe anche decidere di chiudere gli occhi per non riaprirli più. In questa tristezza, che non gli è naturale, Spielberg ha scelto di annullarsi per onorare Kubrick. Da un punto di vista cinematografico, non sapremmo indicare un atto d’amore più grande.

A.I./INTELLIGENZA ARTIFICIALE