Difficile arte, quella del perdono: «IL FIGLIO»
Olivier, falegname, insegna un mestiere a ragazzi usciti dal riformatorio. L’arrivo di Francis sembra toccarlo da vicino, al punto da indurlo ad osservarlo, pedinarlo, fare il possibile per prenderlo con sé. Dovremo pazientare per sapere che Francis è finito in riformatorio per rapina e omicidio e che la vittima è stato il figlioletto di Olivier. Olivier adesso è separato e la moglie attende un figlio da un altro uomo. Tutto indurrebbe a pensare a un desiderio di vendetta. Ma non è così.
Girato, come «Rosetta», con la macchina a mano e senza mai staccarsi dal protagonista (uno straordinario Olivier Gourmet), ripreso prevalentemente di spalle all’altezza della nuca, «Il figlio» scava in un’anima tormentata. E lo fa nella maniera giusta, lasciando tutto in sospeso fino all’ultima inquadratura: perché forse neanche Olivier, all’inizio, sa esattamente cosa fare, a parte il fatto di dover avvicinare quel ragazzo che gli ha tragicamente segnato l’esistenza. Così «Il figlio» diventa un thriller spirituale sorretto da una fortissima tensione interiore (molto più che semplicemente psicologica) che rende leggerissima l’apparente pesantezza del racconto. E il percorso di Olivier diventa un reportage sulla difficile arte del perdono. I Dardenne ci ricordano che il cinema non è soltanto vuoto contenitore di sogni da Luna Park: può essere anche strumento di riflessione, di educazione e di crescita, tanto più se sorretto da uno stile riconoscibile e funzionale che ha la straordinaria peculiarità di inquadrare soltanto ciò che serve al racconto lasciando fuori tutto il resto. È anche così che nasce un capolavoro.