Due uomini allo specchio: «L’UOMO DEL TRENO»

DI FRANCESCO MININNIEtichettare «L’uomo del treno» come «polar», un noir francese con malinconiche venature esistenziali, è troppo riduttivo. Andrebbe perso, così, tutto il finissimo lavoro psicologico del regista Patrice Leconte (abituato al «fuori schema») e dello sceneggiatore Claude Klotz. Perché, nella sostanza, «L’uomo del treno» è la storia di due uomini che si conoscono, entrano in confidenza, in un certo senso invidiano uno la vita dell’altro e, anche se soltanto per un attimo e più con la fantasia che nella realtà, dell’altro indossano i panni, di modo che il tranquillo insegnante di francese amante della poesia si trasformi in un uomo d’azione e il rapinatore triste diventi un uomo in pantofole. È evidente che, date queste premesse, il fatto che Milan arrivi in provincia per rapinare una banca diventi poco più che accessorio, anche perché Leconte non ama i personaggi racchiusi da limiti convenzionali. Tra tocchi surreali (l’autista della banda che parla soltanto una volta al giorno) e lampi di dolcezza, passo dopo passo «L’uomo del treno» diventa una poesia malinconica sulle occasioni perdute, più simile a una ballata di Brassens o Brel che a una canzone della mala.

L’incontro tra Milan e Manesquier, in una farmacia dove il primo acquista dell’Aspirina e l’altro gli fa presente che per l’effervescente c’è bisogno dell’acqua, potrebbe essere casuale. Poi Manesquier lo invita a casa, una strana casa-museo dove tutto sa di passato e di noia. Milan è incuriosito, ma non avrebbe motivo per trattenersi se non fosse che l’albergo è chiuso. Così torna. Come e perché i due diventino amici, è un percorso da scoprire con le immagini, non con le parole.

Malinconico e fatalista come ogni buon «polar» (ma anche come Leconte), «L’uomo del treno» riconcilia con il minimalismo quieto di gente che ha ancora qualcosa da dire ma forse non sa a chi dirlo. Leconte è in vena, ma il contributo dei due protagonisti è fondamentale. Da una parte Jean Rochefort, con la sua vita mai realmente vissuta, dall’altra Johnny Hallyday che, pur non essendo alla sua prima esperienza cinematografica, è una sorpresa assoluta nel suo saper esprimere un mondo senza dire una parola. Il primo accompagnato dalle note di Schubert, il secondo da quelle di Ry Cooder e addirittura differenziati dalle sfumature cromatiche del direttore della fotografia Jean-Marie Breujon, ci regalano l’illusione di una speranza: che quelle occasioni delle quali nella vita ci si accorge sempre un attimo dopo, in un film si possano in qualche modo realizzare. Per un attimo, naturalmente.

L’UOMO DEL TRENO (L’homme du train) di Patrice Leconte. Con Jean Rochefort, Johnny HallydayJean-François Stevenin. FRANCIA 2002; Drammatico; Colore