Cantando e ballando dietro le sbarre: «CHICAGO»

DI FRANCESCO MININNIIn America, più che negli altri paesi dove l’industria cinematografica è ai vertici dell’economia nazionale, sono capaci di trasformare in spettacolo qualunque cosa. E non in forma critica o analitica, ma proprio in spettacolo luccicante e scacciapensieri. «Chicago» di Rob Marshall, tratto dal celebre musical di Fred Ebb, John Kander e Bob Fosse (guarda un po’: il trio di «Cabaret»), è un buon esempio di come tutto ciò possa risolversi in uno spettacolo intelligente e di alto livello: niente di veramente nuovo o costruttivo, ma con una professionalità e qualche brillante idea che non fanno rimpiangere operazioni sulla carta più impegnate. Hollywood, naturalmente, ha risposto alla chiamata: tre Golden Globe e svariate candidature all’Oscar.

Roxie Hart uccide l’amante che l’aveva ingannata promettendole una brillante carriera artistica. Velma uccide il marito e la sorella colti sul fatto. Entrambe finiscono in carcere e si affidano alle cure dell’esperto avvocato Billy Flynn. Assolte, metteranno a frutto l’esperienza studiando un numero musicale in coppia e godendo appieno della pubblicità suscitata dalla cronaca nera.

Ci sono voluti quasi trent’anni per trasformare «Chicago» in un film, soprattutto perché il musical cinematografico alla vecchia maniera non sembrava incontrare più i gusti del grande pubblico. Rob Marshall e lo sceneggiatore Bill Condon hanno risolto il problema con un’idea non nuovissima ma molto funzionale: come nel sottovalutato «Pennies from Heaven» di Herbert Ross, i numeri musicali non interrompono artificiosamente il racconto, ma sono presentati come scaturiti dalla fragile, febbricitante fantasia della spaurita protagonista Roxie (una Renée Zellweger irriconoscibile rispetto alla paffutella Bridget Jones).

Così non vediamo mai Billy Flynn, Roxie Hart e Velma smettere di parlare e cominciare a cantare alla maniera di Fred Astaire e Ginger Rogers, ma assistiamo a una brillantissima materializzazione di fantasie dettate più che altro dalla disperazione. Così «Chicago» diventa quasi un viaggio nell’inconscio: consapevole dello spessore dello spettacolo, ma non indifferente al richiamo di una psiche in piena moscacieca.

Azzeccata questa idea, il resto è alto professionismo. Se Richard Gere, che cominciò come ballerino e cantante, non stupisce più di tanto, Renée Zellweger e Catherine Zeta-Jones, delle cui propensioni musicali nessuno sapeva niente, lasciano di stucco. Cantano e ballano come navigate showgirl, a conferma del fatto che un buon copione, bravi maestri e un ottimo ingaggio possono fare miracoli. Nessuno, però, può stare al passo con Queen Latifah, una Hot Mama di categoria superiore per energia, ironia e timbro vocale. Se la nostra esperienza conta qualcosa, la notte degli Oscar «Chicago» avrà un posto d’onore. Perché, come sempre, «the show must go on».

CHICAGO di Rob Marshall. Con Richard Gere, Catherine Zeta-Jones, Renée Zellweger, Queen Latifah.