Nelle pieghe della storia: «ARARAT»

DI FRANCESCO MININNIChi conosce il cinema di Atom Egoyan, canadese di origine armena, sa che i suoi film, qualunque sia l’argomento trattato, non lasciano mai indifferenti. Un po’ per la grande capacità di coinvolgimento, un po’ per gli estremismi senza mezze misure, un po’ per l’impegno richiesto. Se questo valeva per «Il dolce domani» e «Il viaggio di Felicia», vale ancora di più per «Ararat». Complesso anche al di là del necessario, il film si propone di saldare alcuni conti in sospeso raccontando alcune storie parallele che, come le ben note convergenze politiche, talora si incontrano.

Da una parte c’è il film che un regista armeno sta girando sul massacro del suo popolo ad opera dei turchi tra il 1915 e il 1918. Dall’altra c’è una famiglia dalle vicende complesse: una madre insegnante di storia dell’arte che collabora al film, un padre morto non si sa se per incidente, suicidio o omicidio, un figlio che, lavorando a sua volta nel film, decide di andare in Armenia alla ricerca di qualche verità, e una figliastra troppo sicura delle colpe della matrigna. Ma non basta: un agente della dogana aeroportuale, che ha problemi con il figlio divorziato e convivente con un uomo (che, manco a dirlo, lavora nel film), sospetta che le pizze cinematografiche riportate dal giovane dall’Armenia non contengano pellicola e inizia con lui un lungo dialogo che lo porterà a comprendere e perdonare. È vero, a raccontarlo sembra insormontabile. Eppure «Ararat» (che, ricordiamolo, è il biblico monte su cui si fermò l’arca) trasmette calore e passione. Egoyan capisce bene che, nell’affrontare un episodio storico tuttora controverso (i turchi hanno sempre negato il massacro), era necessario aggirare l’ostacolo della rappresentazione diretta. Per questo ha scelto un film in lavorazione e due famiglie tutt’altro che unite: un lavoro in divenire per dimostrare come si possa arrivare a qualcosa soltanto facendo chiarezza nei propri cuori. E, siccome non gli è possibile evitare gli eccessi, ha scelto due diversi estremismi: da una parte un divorziato che convive con un uomo ma deve anche crescere un figlio; dall’altra un giovane e una giovane innamorati; la cui madre e il cui padre si sono sposati.

Non diremo che tutto questo sia indispensabile né inevitabile: più semplicemente fa parte del modo di vedere le cose dell’autore. Per cui, se da una parte si apprezzano i suoi sforzi per far quadrare i conti, dall’altra ci si sente in qualche modo costretti ad accettare in blocco un insieme di cose che sicuramente non ci appartengono tutte allo stesso modo. Restano una buonissima intenzione, un andamento realmente troppo complesso e, oltre al piacere di rivedere Charles Aznavour ed Eric Bogosian («Talk Radio»), entrambi armeni, la riscoperta di un grande attore come Christopher Plummer, che facendo la guardia doganale ci regala il personaggio più bello del film.

Armeni, lo sterminio di un popolo