Il teorema della verità e dell’araba fenice: «PIAZZA DELLE CINQUE LUNE»
Martinelli, facendo distribuire il suo film con la dicitura «il thriller», ci aveva illuso di seguire altre strade. Fors’anche un cinema di genere, da cui però si potesse trarre qualche utile indicazione sulla buona volontà degli autori. Così com’è, invece, Piazza delle Cinque Lune riporta a galla il maggior difetto dell’autore: storie italiane raccontate con la rigida osservanza di modelli narrativi americani. Diversamente non si potrebbe spiegare, ad esempio, un episodio quasi imbarazzante come quello dell’attacco aereo al giudice e al capo della scorta in aperta campagna: inutile, persino superfluo, ma praticamente uguale al mitico duello tra l’aereo e Cary Grant in Intrigo internazionale di Hitchcock. E che dire dell’incidente stradale che coinvolge il marito e i figli della collaboratrice del giudice? Banale, prevedibile, ma praticamente uguale a uno degli episodi di Duel di Spielberg.
E intanto, chi attende ancora sconvolgenti rivelazioni comincia a pensare che forse non ce ne sarà alcuna. Perchè il caso Moro ripropone l’eterno dilemma della verità storica associata al mito dell’araba fenice: che ci sia tutti lo sanno, dove sia nessun lo sa.
Alla fin fine, Piazza delle Cinque Lune si ricorda soltanto per qualche suggestivo scorcio di Siena, per il mestiere consumato di vecchie volpi come Sutherland e Giannini (ma Stefania Rocca è proprio fuori parte) e per una lunga serie di panoramiche dall’alto e di movimenti aerei che ripropongono l’annosa questione se la bella tecnica fine a se stessa sia sempre bella o soltanto irritante. Come la canzone di Luca Moro, nipote dello statista, che chiude il film con le parole «Maledetti voi, signori del potere, che muovete la vita di persone coi vostri fili da burattinai». La domanda è: potevamo attenderci qualcosa di più?