Poveri, dimenticati e pericolosi: «CITY OF GOD»

DI FRANCESCO MININNIChi pensava all’Italia come paese dei mandolini, dell’arte e degli spaghetti, con «Ladri di biciclette» e «Roma città aperta» si trovò di fronte a una realtà un po’ diversa. Così, chi pensa al Brasile come paese del carnevale e delle Oba-Oba, potrebbe trovarsi in analoga difficoltà con «City of God» di Fernando Meirelles. Un film durissimo, quasi disperato, fino a un certo punto fatalista su un altro Brasile, quello che a due passi da Rio de Janeiro si smarrisce nel labirinto delle favelas.

Seguendo circa vent’anni di vita dei protagonisti, il film racconta un mondo e un’esistenza che potrebbero anche sembrare senza uscita. Nelle favelas comanda la violenza, si è disposti a tutto per «comandare», la polizia è corrotta e inaffidabile, si esce di casa senza sapere se ci si tornerà. Qui, in questo enorme quartiere popolare ribattezzato Cidade de Deus, si muovono Buscapè, Dadinho, Benè, Galinha e tanti altri. Dadinho, ribattezzatosi Ze Pequeno, dà la scalata al mercato della droga diventando il boss più temuto e pericoloso. Benè, suo amico dalle tendenze meno sanguinarie, morirà nel momento in cui decide di chiamarsi fuori. Galinha, pacifista ma trascinato suo malgrado nell’ingranaggio del crimine, sarà ucciso per vendetta da un bambino armato. E Buscapè, da sempre appassionato di fotografia, sarà l’unico a uscire dalle favelas per arrivare a un posto di prestigio in un giornale. Ma anche lui dovrà accettare qualche compromesso.

Il riferimento al neorealismo italiano non è pretestuoso. «City of God» sta a «Roma città aperta» come «Central do Brasil» di Walter Salles stava a «Ladri di biciclette». Il che significa che in certe parti del Brasile la situazione è ancora simile a quella dell’Italia dell’immediato dopoguerra. Meirelles, pur di scuotere il pubblico, non risparmia niente: un linguaggio ininterrottamente brutale, una violenza fisica e psicologica che tiene costantemente alta la tensione del film, ma anche una certa difficoltà nel dare omogeneità al racconto, alcune deviazioni dall’asse centrale che inducono il sospetto di una spettacolarizzazione più astuta che sincera, così come alcuni episodi o personaggi più da cineteca che da autentica favela. Dove, a ben guardare, si scopre una certa affinità con il cinema di Spike Lee e soprattutto con «Clockers»: il lungo e faticoso cammino di un ragazzo di colore per riuscire a liberarsi dalla «maledizione del quartiere».

Resta la consapevolezza di un tentativo rozzo ma efficace di liberarsi dalle immagini da cartolina per mettere il pubblico di fronte a una rappresentazione il più possibile (e anche più del possibile) realistica di un paese che esporta il folklore e non lascia uscire le immagini della vita vera. Quella della gente che soffre.

CITY OF GOD di Fernando Meirelles.

Il sito ufficiale del film