A capo del puzzle della vita: «CITY OF GHOSTS»
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Jimmy, agente assicurativo a New York, è coinvolto nel fallimento della compagnia per cui lavora. Nonostante l’Fbi gli consigli di non lasciare il paese, lui sente di dover andare a Bangkok alla ricerca del capo, Marvin. E quando non lo trova a Bangkok, non esita a spostarsi in Cambogia. Qui troverà Marvin, il socio Kaspar, una bella archeologa, un albergatore francese, balordi di ogni genere, la mafia locale e soprattutto Sok, un modesto tassista che, con la sua fedeltà disinteressata, gli offrirà la chiave di volta della sua esistenza.
«City of Ghosts» ha più di un pregio. Innanzitutto una certa obiettività di giudizio nei confronti di una società orientale (quella dei khmer) abitualmente snobbata dagli americani. Ma soprattutto un desiderio interiore di riscoprire le proprie radici umane che potrebbe anche appartenere a Matt Dillon in quanto uomo, più che attore e regista. Così il percorso di Jimmy, assicuratore fallito, uomo allo sbando alla ricerca di un truffatore che potrebbe essere suo padre e capace di scegliere di restare in Cambogia con la sua donna quando due sacchi pieni di dollari suggerivano altrimenti, diventa assimilabile a quello di un attore nato come ribelle, oscurato da troppi concorrenti e riuscito faticosamente a percorrere la propria strada senza presunzione né rassegnazione.
In «City of Ghosts» brillano il talento di un altro emarginato di Hollywood, James Caan nel ruolo di Marvin, e la spontaneità dello sconosciuto Sereyvuth Kem nei panni di Sok, di gran lunga il più bel personaggio del film e capace di un’azione finale che ci riconcilia con quella che dovrebbe essere la normalità nei rapporti tra esseri umani. «City of Ghosts», che ha qualche problema di ritmo e una parte centrale pericolosamente sbilanciata verso il dejà vu, nasce comunque da un’idea sensata e onesta: quanto possa essere difficile rimettere insieme i pezzi di una vita. Se vi sembrerà di averla già sentita, non c’è da stupirsi: riguarda ciascuno di noi.