Dottor Banner e mister Hulk: «HULK»

DI FRANCESCO MININNIChi dubita della validità delle trasposizioni cinematografiche di un fumetto di successo, facendosi forte dei risultati interlocutori di «Spider Man» e, un gradino più in basso, di «Daredevil», dovrebbe lasciarsi un ritaglio di tempo per dare un’occhiata a «Hulk» di Ang Lee. La matrice è la stessa: i fumetti Marvel creati da Stan Lee. Ma l’approccio è diverso, più esistenziale e interiorizzato che non effettistico e avventuroso.

Leggendo Hulk come un lato oscuro dell’uomo, ma contemporaneamente arricchendolo di appendici romantiche e immergendolo in un’atmosfera di profonda tristezza, Ang Lee ottiene un risultato che in buona parte va oltre l’apparenza del fumetto.

Pur adottando uno stile narrativo che non fa alcunché per nascondere la provenienza dalla carta stampata (vedi l’uso anche troppo insistito dello split-screen, ovvero lo schermo suddiviso in riquadri che mostrano azioni diverse), Lee studia accuratamente il ritmo del racconto e ottiene il risultato di far riflettere sulle autentiche motivazioni di quello che a questo punto è improprio definire un super-eroe. Hulk è un coatto che, prima di lottare per la giustizia, pensa più che altro alla vendetta.

Nato con qualche prospettiva di mutazione genetica a seguito degli esperimenti del padre scienziato, Bruce Banner ha dimenticato il brutto dell’infanzia (il padre ha ucciso la madre) ed è cresciuto con genitori adottivi che crede suoi. In seguito a un incidente di laboratorio, il lavoro del padre innesca una metamorfosi che, nei momenti di rabbia, porta Bruce a trasformarsi in Hulk, un omone verde alto più di tre metri, fortissimo, istintivo allo stato puro. Inevitabilmente il passato tornerà a bussare alla sua porta: il padre vorrebbe servirsene per innescare ulteriori reazioni; il generale Ross vorrebbe distruggerlo; Talbot vorrebbe sfruttarne i tessuti a fini commerciali; neanche Betty, figlia di Ross e quasi innamorata di Banner, sembra pronta a reggere l’impatto del ciclone-Hulk. Stando così le cose, Hulk diventa un perseguitato e Banner una mina vagante… Finché non inciampa (prevedibilmente) nello strapotere degli effetti speciali, che nella seconda parte lo trasformano in un prodotto più vicino alla serializzazione, «Hulk» ha da offrire sprazzi di riflessione sul ruolo dell’emarginato tutt’altro che banali.

Prima della seconda parte, le caratteristiche di Hulk vanno di pari passo con quelle di altri risultati di esperimenti scientifici, come la creatura di Frankenstein e Jekyll & Hyde, nonché con quelle del più grosso emarginato della storia del cinema, ovverosia King Kong. Giova una piccola modifica apportata al personaggio originale che, da incontenibile forza della natura, si trasforma in un essere molto triste, consapevole della propria «imbarazzante» diversità e capace di mettere a nudo il peggio di quanti gli stanno intorno. Forse per questo motivo «Hulk» non ha incontrato negli Usa il successo dei predecessori: costringendo il pubblico a pensare invece di stordirlo con effetti speciali, Ang Lee ha dato un tocco di stile che non ha giovato agli incassi.

Eric Bana è funzionale al ruolo di Bruce Banner, ma non si può negare che il colosso verde gli rubi facilmente la scena. Così ci guadagnano i caratteristi: un ambiguo Nick Nolte nel ruolo del padre e un impeccabile Sam Elliott in quello del generale Ross. Non mancano l’apparizione di Stan Lee (un militare) e un omaggio al vecchio Hulk con il cameo di Lou Ferrigno (un poliziotto), che lo interpretò in tre film e in tv. Ma senza Lee come regista.

HULK di Ang Lee, Usa 2003, con Josh Lucas, Sam Elliott, Nick Nolte, Eric Bana, Jennifer Connelly.

Il sito ufficiale del film