Il sommesso rumore della follia: «ELEPHANT»
Niente a che vedere con il reportage caustico e polemico di Michael Moore «Bowling a Columbine», che cercava le radici della violenza accumulando materiale documentario e interviste di ogni genere. Van Sant, invece, ha scelto una via enormemente più difficile, che soltanto in apparenza accomuna il suo film a certi thriller catastrofici come «Panico nello stadio»: la presentazione dei diversi personaggi, l’arrivo di un elemento perturbante, la consapevolezza che molti di quei personaggi moriranno senza ragione.
Van Sant non intende darci spiegazioni né ridurre il suo lavoro alla storia di «quel» massacro: si limita a mostrare cose e persone e a informarci che, indipendentemente dalla nostra buona o cattiva volontà, certi avvenimenti accadono. Senza concessioni allo spettacolo, senza compromessi drammatici, senza strizzate d’occhio: possiamo dire che «Elephant» è un film rigoroso, ovverosia scarno ed essenziale, che con la sua rinuncia ad esplorare le ragioni della follia rischia di farci capire molte cose. Ad esempio, che il pazzo non deve urlare e strabuzzare gli occhi per essere classificato come tale: il pazzo può essere educato, camminarci accanto senza infastidire, vivere un’esistenza assolutamente normale, sorridere e ridere come tutti gli altri. Per questo, quando il sommesso rumore della follia diventa un boato, può essere molto difficile difendersi.
ELEPHANT (Id.) di Gus Van Sant. Con Alex Frost; Eric Deulen, Timothy Bottoms. USA 2003; Drammatico; Colore