«DOGVILLE»

DI FRANCESCO MININNILe provocazioni di Lars von Trier sono molteplici. La prima è tecnico-stilistica e fa riferimento alla creazione dei dettami di «Dogma»: film girati senza luci artificiali e con la macchina da presa a mano. La seconda è tematica: gente comune, problemi comuni, comunissime angosce, ma affrontati di petto senza alcuna mediazione spettacolare. La terza, che diventa la più importante per chi trovi (comprensibilmente) qualche difficoltà ad accettare le precedenti, è politica. Si intuiva nel melodramma disperato «Dancer in the Dark», nella contrapposizione tra la brillantezza del musical e il grigiore dell’esistenza, nella tristezza di un mondo cattivo incapace di tendere una mano, nell’accenno alla crudeltà estrema della pena di morte.

In «Dogville», invece, la valenza politica esplode con una violenza formale e tematica che non lasciano dubbi. Come non lascia dubbi che per realizzare un film così, von Trier sia andato proprio in America. Dogville è una cittadina con pochi abitanti, dove tutti si conoscono e dove chiunque sa tutto di tutti. Qui arriva Grace, che sta sfuggendo a qualcuno e ha bisogno di un nascondiglio. Tom l’accoglie e le dà un alloggio. In cambio, Grace lavorerà. Dopo un’iniziale diffidenza, tutti sembrano accettarla godendo al massimo della sua disponibilità. Da qui allo sfruttamento, alle prepotenze, alle imposizioni e ai ricatti, il passo è breve. Dopo un tentativo di fuga, Grace diventa la schiava di tutti con tanto di catena al collo. Finché, denunciata da Tom, rivela la sua vera identità: è la figlia di un gangster, fuggita da casa perché contraria ai metodi e ai progetti paterni, ma pronta a tornare sui propri passi per dimostrare a Dogville la riconoscenza dovuta…

Von Trier ha un’idea di partenza fulminante: Dogville è disegnata in pianta su un grande palcoscenico. Né pareti, né case, né strade, come a voler suggerire che chiunque possa vedere ciò che accade nelle case degli altri. Mantenendo questa stilizzata unità di luogo, l’autore non fa sconti: «Dogville» è un’amarissima parabola su intolleranza che genera intolleranza, violenza che genera violenza, sentimenti apparenti sbandierati e contraddetti, con la sensazione incombente di trovarsi in un imbuto senza uscita. Come il castello in mezzo al nulla di «Cul de sac» di Polanski, come la bianca prigione de «L’uomo che fuggì dal futuro» di Lucas, come la giungla infernale di «Apocalypse Now» di Coppola (senza dimenticare Brecht o certi drammi familiari di Tennessee Williams).

Interpretato magnificamente da Nicole Kidman e illuminato da un prezioso cameo di James Caan, «Dogville» lascia il segno. Chi ancora crede alla propaganda americana del buon vicinato, quando bastava affacciarsi alla finestra per vedere Doris Day, dovrà convincersi che l’ambientazione negli anni della grande depressione è un espediente narrativo: von Trier parla di un ieri che ci mette poco a diventare oggi e magari, ai suoi occhi fatalmente pessimisti, a trasformarsi in un sempre.

DOGVILLE (Id.) di Lars von Trier. Con Nicole Kidman, Paul Bettany, Lauren Bacall, James Caan.

Il sito italiano del film