«L’ULTIMO SAMURAI»

DI FRANCESCO MININNI

Se ci avessero raccontato che nel 1870 un ufficiale reduce dalla guerra civile americana, recatosi in Giappone per una missione di guerra, solidarizzò con gli orientali apprendendo da loro più di quanto non fosse capace di insegnare, quindi non comportandosi più da colonizzatore ma da allievo attento e diligente, sicuramente non ci avremmo creduto. Se poi ci avessero detto che tutto questo sarebbe stato narrato in un kolossal di produzione statunitense, li avremmo addirittura guardati con un sorrisetto ironico. Ora che «L’ultimo samurai» è diventato un film, invece, dobbiamo ammettere che sotto alcuni aspetti ci ha sorpresi. Che Edward Zwick fosse un regista interessato ad alcuni episodi poco frequentati di grandi eventi storici, era testimoniato da «Glory». Ma in un certo senso, per un regista americano di razza caucasica, può essere più semplice narrare il coraggio di un reggimento di soldati di colore piuttosto che ammettere che un giapponese possa avere qualcosa (che non sia il karate) da insegnare agli americani. Così la storia di Nathan Algren, capitano disilluso e stanco, e del suo viaggio in Giappone come addestratore delle truppe imperiali nella prospettiva di affrontare il samurai Katsumoto, poco gradito ai potenti del palazzo, diventa una sorta di viaggio iniziatico nel quale due uomini tanto diversi per origini ed esperienze si scoprono fratelli sul campo dell’onore, che il giapponese non dimentica mai e che l’americano ritroverà. È evidente che «L’ultimo samurai» è un kolossal, così come che deve molto alle grandi battaglie di Kurosawa (da «I sette samurai» a «Kagemusha») e persino di Mel Gibson («Braveheart», importante referente anche dal punto di vista del significato patriottico). Ma tutto questo spettacolo Zwick riesce a tenerlo a bada senza lasciargli sopravanzare il significato ultimo della vicenda: al mondo ci dev’essere qualcuno che insegna e qualcuno che impara, i ruoli si possono scambiare e dal confronto emerge il senso dei rapporti umani. In tutta questa saggezza e obiettività, se proprio dovessimo andare a cercare il difetto lo troveremmo in un eccesso di protagonismo di Tom Cruise (non a caso ignorato dalle nomination all’Oscar, che hanno invece premiato Ken Watanabe): è lui che sopravvive (unico) alla battaglia finale, è lui che apre gli occhi all’imperatore sull’affidabilità di certi suoi «fedeli» sudditi, è lui che sceglie di rimanere in Giappone nel villaggio del samurai e soprattutto è a lui che si spalanca un futuro d’amore nella persona della sorella di Katsumoto. Poco importa che sia stato proprio lui a renderla vedova uccidendo il marito in una precedente battaglia. Qui si capisce che Tom Cruise non è soltanto protagonista, ma anche produttore del film. E si capisce anche che, se avesse avuto campo libero in tutto e per tutto, sarebbe probabilmente riuscito a rovinarlo. L’ULTIMO SAMURAI (The Last Samurai) di Edward Zwick. Con Tom Cruise, Ken Watanabe, Timothy Spall, Hiroyuki Sanada. USA 2003; Avventura; Colore

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