«AURORA»

DI FRANCESCO MININNIForse non lo sapete, ma può essere estremamente istruttivo e persino commovente rituffarsi periodicamente nel passato per riscoprire inventori, sperimentatori, maestri, geni e trarne insegnamenti perché ciò che è stato fatto non vada perduto. Il restauro di «Aurora» di Friedrich Wilhelm Murnau, realizzato nel 1927, è una di queste occasioni e permette di capire come la grandezza non passi necessariamente attraverso le complicazioni, ma possa esplicarsi anche con la massima semplicità.

Murnau veniva dai successi tedeschi di «Nosferatu», «L’ultima risata», «Tartufo» e «Faust». Aveva dato vita alle ombre dell’espressionismo, aveva raccontato classici e storie di ordinaria tristezza, aveva (scusate se è poco) inventato i movimenti di macchina, fino a quel momento condannata all’immobilismo. Era logico che l’industria cinematografica americana lo corteggiasse, costruendogli ponti d’oro e garantendogli assoluta libertà creativa. A queste condizioni nessuno avrebbe rifiutato. Così «Aurora» fu un film molto costoso e all’avanguardia tecnica dell’epoca. Ma fu anche un insuccesso: Hollywood aveva un’altra idea di commedia romantica e si trovò spiazzata di fronte a una storia di gente comune, di semplici sentimenti, di psicologie elementari e quasi archetipiche, ma soprattutto di grande sperimentazione linguistica, di invenzione tecnica e di ricchezza fotografica.

Così, colpevole di aver realizzato un capolavoro destinato a rimanere nella storia, Murnau fu rapidamente emarginato e, dopo altri tre film, condannato al silenzio. Qualunque siano i vostri gusti e le vostre preferenze, dategli una possibilità. Prestate attenzione alla potenza evocativa delle immagini di Charles Rosher e Karl Struss, alla grandezza delle scenografie (urbane e campestri) di Rochus Gliese, Edgar G. Ulmer e Alfred Metscher, alla bravura di Janet Gaynor che riesce persino a far dimenticare la teatralità di George O’Brien. Ma prestate attenzione soprattutto alla storia di un uomo e una donna, al loro amore minacciato da una donna di città, ai dubbi dell’uomo, alla paura della donna, al riavvicinamento dei due in una città estranea che diventa improvvisamente accogliente e amica. E poi, sulla via del ritorno, la tempesta: la reale possibilità che la donna scompaia tra i flutti. Quindi, in un certo senso, la voce di Dio che mette ognuno di fronte alle proprie responsabilità e che alla fine, con la quiete rassicurante dell’aurora, fa sì che le parti si ricompongano con piena consapevolezza. Infine, dopo tutto questo che non è soltanto una storia facile da capire ma anche un’esplosione di genio cinematografico, chiedetevi chi oggi sarebbe capace di raccontare la stessa vicenda senza doverla spezzettare in più puntate per poterla programmare in più serate televisive. Ma anche chi la saprebbe raccontare senza cadere nell’umorismo involontario.E allora, credeteci, Murnau merita una chance che vada oltre il rimanere incasellato nella nicchia di un museo.

AURORA (Sunrise: a Song of Two Humans) di Friedrich Wilhelm Murnau. Con Janet Gaynor, George O’Brien, Margaret Livingston. USA 1927; Drammatico; Bianco e nero