«ORO ROSSO»

DI FRANCESCO MININNIJafar Panahi, come il suo amico e maestro Abbas Kiarostami (e talvolta anche meglio di lui), racconta storie di tutti i giorni. Più o meno come facevano De Sica, Rossellini e De Santis negli anni del neorealismo. Il che significa che non si tratta di storie ilari o scacciapensieri, ma di vicende e problematiche inerenti l’esistenza della povera gente, dell’ingiustizia sociale, dell’amarezza degli ultimi. Gli ultimi di Panahi sono i bambini («Il palloncino bianco»), le donne («Il cerchio») e, in «Oro rosso», Hussein e Alì.

Che la vita di Hussein sia destinata a un triste epilogo ci è chiaro fin dalla prima sequenza. L’uomo sta rapinando una gioielleria armato di pistola. Ma qualcosa va storto: Hussein uccide il gioielliere e poi, intrappolato nel negozio dalle sbarre di sicurezza, si spara alla tempia. In tutto questo, però, c’è qualcosa di anomalo: Hussein non sembra un criminale professionista e ha più i connotati del disperato che, esasperato da qualcosa, è arrivato all’ultima spiaggia. Come il povero Maggiorani in «Ladri di biciclette», come il professor Battisti in «Umberto D.».

E allora, dopo aver reso il suo percorso ineluttabile eliminando ogni possibile via di fuga, Panahi cerca di risalire alle radici di un gesto estremo per farci sapere che Hussein è un uomo buono, ingenuo, incapace di comprendere le molte ingiustizie che lo circondano. Consegna pizze a domicilio, le divide con i poliziotti durante una retata nei quartieri alti, è introdotto da un riccone in un appartamento che sembra una reggia e da cui si può vedere tutta Teheran, capisce benissimo che il suo lavoro non lo porterà mai neanche a vedere da lontano qualcosa di simile a quel che ha visto in una notte. Qui subentra la disperazione, che però assume i contorni della rabbia. Il gioielliere prescelto ha avuto il torto prima di non farlo entrare nel negozio, poi di ignorarlo per dare relazione a clienti più importanti, infine di consigliargli un acquisto più abbordabile in uno dei tanti bazar. Come se gli avesse detto: «Sei quel che sei. Né tu né io possiamo farci niente. Questo non è posto per te. Torna nei tuoi bassifondi».

Non è un caso se «Oro rosso», presentato a Cannes nel 2003, non ha trovato alcuna distribuzione in Iran. Pur non essendo il film migliore di Panahi, è probabilmente il più scomodo. Parla dell’esistenza dei ricchi, delle prepotenze della polizia, non esita a mettere a confronto le classi sociali.

Essendo un film a tesi, non riesce a far sì che il tutto diventi omogeneo e che la tematica emerga progressivamente: una volta chiarite le ragioni di Hussein (Hossain Emadeddin, indimenticabile nella sua attonita rassegnazione), procede più per ripetizione che per aggiunta di nuovi elementi, diventando faticoso nel ritmo e non sempre di prima mano nella scelta degli episodi. Il ricco apatico che apre le porte di casa a Hussein e gli permette di usare bagno, piscina e sala da pranzo, ad esempio, è parente stretto del riccone di «Luci della città»: generoso e fraterno da ubriaco, odioso e immemore da sobrio. Citando Chaplin e Brecht, Panahi e Kiarostami (che ha sceneggiato il film) dichiarano che non è soltanto la realtà nuda e cruda la loro fonte d’ispirazione.

«Oro rosso» è comunque un film utilissimo per capire come dietro l’impersonale titolo di un fatto di cronaca sul giornale possa celarsi una realtà che magari non fa spettacolo, ma dalla quale non si può prescindere se vogliamo veramente capire le cose.

ORO ROSSO (Talaye Sorgh) di Jafar Panahi. Con Hossain Emadeddin, Kamyar Sheisi, Azita Rayeji. IRAN 2003; Drammatico; Colore