«THE TERMINAL»

DI FRANCESCO MININNIPer raccontare «The Terminal» di Steven Spielberg bisogna partire da lontano. Da Charlot che, in «Luci della città», sconvolgeva con la sua sola presenza l’ordine costituito. Da Mr. Smith che, in «Mr. Smith va a Washington», era veramente convinto dell’incrollabile forza della democrazia. Da John Doe che, in «Arriva John Doe», diventava casualmente un beniamino dell’opinione pubblica. Da monsieur Hulot che, in «Mio zio», difendeva candidamente i valori del sentimento e della fantasia dagli attacchi di un mondo sempre più cattivo e indifferente. E anche da Elwood P. Dowd che, in «Harvey», era l’unico a vedere un gigantesco coniglio bianco ed era preso per pazzo.

Seguendo i tanti fili gettati da questi grandi personaggi, si arriva a Viktor Navorski, cittadino della Krakozhia, che arriva all’aereoporto Kennedy di New York e, a causa di un colpo di stato verificatosi mentre era in viaggio, non può né entrare in New York né tornare a casa perché i suoi documenti non sono più validi. Con la sua semplicità e la sua incrollabile volontà, scoprirà tutto dell’America: quanto possa essere intollerante, quanto sia difficile seguire le vie della burocrazia, quanta brava gente ci sia pronta a dare una mano, quali siano le regole elementari della solidarietà e della convivenza, quanto possa costare rincorrere un sogno. E scoprirà anche che i sogni, talvolta, si avverano.

Sgombriamo il campo dai violini: ce ne sono troppi nella musica che accompagna «The Terminal», a rendere la favola dell’uomo qualunque un po’ meno realistica di quanto dovrebbe. D’altronde, Spielberg viene da esperienze che non sono proprio il massimo dell’ottimismo e, trovandosi a dover gestire un materiale che oscilla continuamente tra Chaplin e Frank Capra, si è permesso qualche sottolineatura che di buon grado perdoniamo. L’importante, al di là di un sovrappiù di buoni sentimenti che appesantisce il racconto, è la capacità dell’autore di raccontare sogni e incubi, disillusioni e speranze, intolleranza e solidarietà, bontà e cattiveria, senza uscire da un aereoporto Kennedy meravigliosamente ricostruito in studio.

Certo, il modo che ha Spielberg di raccontare l’America non è lo stesso di Michael Moore o di Martin Scorsese: invece di puntare al cuore per trafiggerlo, lui preferisce farlo lavorare in tutte le sue funzioni, ivi comprese quelle della commozione e della gioia. Senza dimenticare naturalmente che sul fondo del barile, in «The Terminal», resta una buona dose di amaro, lo stesso che ci circonda e che dovrebbe farci meditare su come, sveltendo certe pratiche nei rapporti interpersonali, il mondo intero potrebbe trarne un immediato giovamento.

È veramente difficile immaginare «The Terminal» senza Tom Hanks, capace di spogliarsi del suo essere americano per trasformarsi in un perfetto straniero. E non dispiace neppure la versione «casual» di Catherine Zeta-Jones, una hostess piena di problemi e priva di atteggiamenti da star.Il bello è che «The Terminal» si ispira alla vera storia del profugo iraniano Merhan Nasseri, che nel 1988 si trovò intrappolato a Parigi nell’aereoporto De Gaulle per analoghi problemi di documenti. Steven Spielberg ha fatto in modo che ricevesse la somma di 300.000 dollari a mo’ di diritti d’autore. E così la favola continua.

THE TERMINAL (Id.) di Steven Spielberg. Con Tom Hanks, Catherine Zeta-Jones, Stanley Tucci. USA 2004; Commedia; Colore