«CUORE SACRO»
Irene Ravelli, manager immobiliare, sta meditando di ristrutturare il palazzo di famiglia per trasformarlo in una serie di miniappartamenti. La scoperta della stanza della madre, lasciata intatta da trent’anni, e l’incontro con Benny, una bambina fuori schema che ruba e aiuta il prossimo, fanno scattare in Irene la molla del cambiamento. La donna, così, diventa una benefattrice dei senza casa, dei barboni, arrivando al punto di spogliarsi di ogni bene per donarlo al prossimo. Un cambiamento così radicale potrebbe causarle qualche problema psichico…
«Cuore sacro» dovrebbe rappresentare il ritorno della bontà in un mondo di cattiveria. Ma anche, come accadeva a Ingrid Bergman in «Europa ’51» di Rossellini, le conseguenze di una crisi mistica e quindi una spinta di ordine spirituale.
Ozpetek, che non ha le idee chiare in proposito ma sa soltanto che è necessario fare qualcosa, fa una gran confusione. Non prevede, ad esempio, che il cambiamento di Irene possa passare attraverso qualche stadio successivo, ma arriva subito al nocciolo rendendo tutto più difficile da accettare. Mentre è bravissimo quando si muove nei meandri del vecchio palazzo, tra stanze sigillate, lunghi corridoi e affreschi rivelatori, non mostra la stessa maestria quando affronta barboni e derelitti, necessariamente legati a troppi stereotipi che finiscono per privarli di verità.
E soprattutto si affida a una protagonista, Barbora Bobulova, che è brava, ma non abbastanza da reggere un personaggio così complesso e che non abbandona mai la scena. Mentre si cominciano a notare vuoti di sceneggiatura (la mancanza di raccordi che rendono qualche passaggio, anche importante, troppo brusco), si conclude che «Cuore sacro», nel suo vertiginoso percorso dal gelo dei quartieri alti all’utopia del francescanesimo, soffre di un male minore: la passione per un’idea che conduce l’interessato a non considerare i modi migliori per esporla. È un male minore perché non toglie vigore all’assunto: ma in un film può fare la differenza.