«OLD BOY»

DI FRANCESCO MININNI«Old Boy», del sudcoreano Park Chan-Wook, ripropone una questione ormai annosa: se si possa, cioè, raccontare di tutto in nome di una ricerca di stile, invocando radici culturali e contemporaneamente ignorando misura e autoregolamentazione. Se si possa, cioè, esercitarsi nella tecnica dell’eccesso a tutti i livelli e meritare per questo la qualifica di maestro o, per l’opera in questione, di capolavoro. Il dubbio è amletico: da quando «libertà d’espressione» e «raccontate quel che vi pare» si sono sovrapposti, chiunque sollevi qualche perplessità sulla legittimità di una rappresentazione diventa automaticamente un nemico della democrazia. Ora, «Old Boy», il cui primo ammiratore è stato, non a caso, Quentin Tarantino, ci mette di fronte al solito dilemma: siamo noi i nemici della libertà o sono loro che se ne servono in modo sbagliato?

Oh Dae-Soo, attaccabrighe ben conosciuto dalla polizia, è sequestrato e rinchiuso in una stanza. Senza sapere perché, vi passerà quindici anni della sua vita. Poi, liberato, dovrà dedicarsi alla ricerca del suo carceriere e, prima di compiere la propria vendetta, a capire perché. Tra una cosa e l’altra, conoscerà una ragazza che si prenderà cura di lui, sbaraglierà un esercito di nemici e, arrivato faccia a faccia con il persecutore, conoscerà una verità devastante che gli farà capire molte cose sulla cattiveria cui può cedere un animo umano.

«Old Boy» nasce da un fumetto giapponese. Park Chan-Wook, però, non ha scelto una rappresentazione fumettistica, se non in certi stacchi di montaggio che ricordano lo scorrere del tempo tra una vignetta e l’altra. L’autore racconta la vicenda iperrealista del film come un reportage di cronaca nera, senza concedere alcuna alternativa al percorso dei personaggi e al mondo che li circonda. Così «Old Boy» diventa un manuale di ineluttabilità e di violenza più mentale che fisica, dove l’ironia non è di casa e dove regna il destino beffardo. Senza freni, Chan-Wook accumula violenze ordinarie (tipo denti strappati col martello) per arrivare a una conclusione di sicuro effetto.

È lecito chiedersi il perché di tutto questo. Se «Old Boy» invoca quarti di nobiltà come la tragedia greca (diciamo «Edipo Re» di Sofocle, 430 a.C.) o quella elisabettiana (diciamo «Peccato che sia una sgualdrina» di John Ford, 1633), dove la rappresentazione di incesti e sanguinose faide familiari facevano parte di uno stile e di un’epoca, bisogna appunto ricordare che stile ed epoca non sono più gli stessi. Se invece si serve di questo per dare vita cinematografica a un fumetto, dovremmo parlare di talenti sprecati. Se infine intende servirsene per rappresentare quella che ritiene sia una situazione sociale attuale, mancano i punti di riferimento e i termini di paragone. Da parte nostra opteremmo per la seconda soluzione: «Old Boy» è e resta un fumetto e Park Chan-Wook mostra di avere un talento che meriterebbe un banco di prova più impegnativo.

OLD BOY (Id.) di Park Chan-Wook. Con Min-Sik Choi, Ji-Tae Yu, Hye-Jeong Kang. SUD COREA 2003; Drammatico; Colore