«IL REGISTA DI MATRIMONI»

DI FRANCESCO MININNIDuro, il mestiere del regista. Talmente abituato a trasformare le immagini reali in quelle che appariranno sullo schermo, a filtrarle cioè attraverso il proprio «occhio» più o meno visionario, potrebbe arrivare il giorno in cui la linea tra reale e immaginato dovesse divenire così labile da trasformare il mondo oggettivo in qualcosa di soggettivo e molto più mutevole di quanto già non sia. Se queste sono le premesse, che dire? Che, dopo qualche film di valore simbolico ma con un racconto dall’andamento più tradizionale, Marco Bellocchio ha sentito la necessità di immergersi nuovamente nel simbolismo a tutto tondo inventando «Il regista di matrimoni» e spiazzando quanti si aspettavano una storia di immediata e comoda fruizione. Accade così che la platea si spacchi tra «un film eccezionale» e «non ci ho capito niente», che è probabilmente la dicotomia più gradita dal regista ribelle.

Si ami o meno Bellocchio, questa volta bisogna riconoscergli una complessa ricerca di stile che raggiunge lo scopo primario: impedire a chiunque di concatenare gli avvenimenti del film in modo da ottenere una storia conseguente e lasciare il pubblico nella scomoda posizione di equilibrio (precario) tra un reale e un altrove collocabile soltanto nella mente dell’autore.

Il regista Franco Elica sta preparando una riduzione cinematografica de «I promessi sposi». Denunciato (a quanto pare) per violenza carnale, si rifugia a Cefalù, dove incontra un dilettante che organizza i filmini dei matrimoni, un regista creduto morto e un principe del luogo che gli commissiona il film delle nozze della figlia. Dopodiché diventa inutile raccontare gli eventi, che si ripetono con modalità sempre differenti e ci fanno dubitare del loro effettivo verificarsi. La conclusione è che, guidato da un fantasma nel monastero in cui la principessa attende il mattino delle nozze, Franco la prende con sé per una sorta di fuga romantica in treno. Solo che Bellocchio, su quel treno, non ce li mostra mai insieme: una volta è lei senza lui, una volta lui senza lei. Di modo che la parola giusta non è «fine», ma «continua».

È evidente che il nume tutelare di Bellocchio in questo viaggio così anomalo è l’ironia. Soprattutto ironia su se stesso in quanto regista, quindi parte in causa. Chi conosce il cinema di Bellocchio, sa che sarebbe un errore aspettarsi una chiarificazione: «Il regista di matrimoni» è un viaggio in cui ognuno è compagno di strada di se stesso. Certo, si possono tirare in ballo la percezione del reale e, di rimando, la realtà di quanto percepito, per arrivare a una realtà sfuggente e priva di punti di riferimento o a qualcosa che il singolo si inventa per sfuggire a un presente troppo angosciante e di nessuna gratificazione. È comunque singolare che, a brevissima distanza l’uno dall’altro, due registi italiani di alto livello si interroghino sul rapporto tra il regista e il presente (quindi il reale) in una sorta di beffardo duello coi fantasmi: Nanni Moretti ne «Il caimano», Marco Bellocchio ne «Il regista di matrimoni». Con quella battuta pronunciata da Osvaldo Smamma (il regista creduto morto, interpretato da Gianni Cavina) a unirli col filo sottile della polemica: «In Italia sono i morti a comandare».

IL REGISTA DI MATRIMONI di Marco Bellocchio. Con Sergio Castellitto, Donatella Finocchiaro, Sami Frey, Gianni Cavina