«BUBBLE»
A ben guardare, ciò assomiglia molto alla parabola del figliol prodigo. La differenza è che gli esercenti americani, invece di far uccidere il vitello grasso, hanno relegato «Bubble» in pochissime sale condannandolo a un risibile incasso di 72.000 dollari. Forse prevedendo l’inghippo, Soderbergh ha pensato a un’uscita contemporanea sugli schermi, in DVD e sulla TV via cavo, ramazzando con le altre due opzioni un utile di cinque milioni di dollari (soltanto per il primo weekend).
Se questo non depone a favore della lungimiranza degli esercenti, crea anche un sinistro precedente: saltare le sale ed uscire subito in home-video potrebbe anche rappresentare la fine di qualcosa.
In una cittadina del Midwest, dove la gente vive senza sogni e senza prospettive, dove nessuno si arricchisce e dove i giorni sembrano tutti uguali, si incrociano le vicende di Martha, Kyle e Rose, colleghi di lavoro in una fabbrica di bambole. Martha ha un padre infermo, è grassa e bruttina, forse ama segretamente Kyle, che da parte sua sembra non accorgersene, vive sotto psicofarmaci e ha una madre depressa. Rose, la nuova arrivata, ha una figlia di due anni e un ex che coltiva e spaccia marijuana. Neanche due furti e un omicidio scuoteranno quell’angolo di mondo dalla sua apatia.
I riferimenti di Soderbergh possono essere molteplici: sicuramente i quadri della solitudine di Edward Hopper e i racconti esistenziali di Raymond Carver. Ma, andando a ritroso, potremmo trovare persino tracce di Brecht e Pirandello. Per raccontare, con uno stile essenziale e privo di fronzoli, come si possa morire dentro lentamente, giorno dopo giorno, senza sussulti né reazioni. Come si possa arrivare a uccidere quasi senza rendersene conto. E senza che nulla di ciò che si muove intorno a noi, persone o cose che siano, facciano qualcosa per fermarci.