«IL CODICE DA VINCI»

DI FRANCESCO MININNILa filastrocca Disney fa al caso nostro. Chi ha paura del lupo cattivo? Noi no, noi no, noi no. Dove il lupo cattivo dovrebbe essere Dan Brown e i tre porcellini i milioni di spettatori che in tutto il mondo si apprestano a decretare al film di Ron Howard lo stesso successo trionfale toccato al romanzo. È ovviamente de «Il codice Da Vinci» che stiamo parlando, con tutte le intenzioni di analizzarlo soltanto da un punto di vista cinematografico. Perché, una volta dimostrato che il priorato di Sion non esiste, che l’Opus Dei non è una sorta di loggia massonica, che gli alti prelati non comunicano tra sé parlando in latino, che la donna del cenacolo di Leonardo non è Maria Maddalena ma l’imberbe Giovanni, che Gesù Cristo non si è sposato con Maria Maddalena mettendo al mondo una figlia da cui sarebbe discesa la dinastia dei Merovingi e soprattutto che non è con quattro fregnacce che si può immaginare di inculcare il dubbio nel cuore dei credenti (che magari abbiano anche un minimo di preparazione culturale), resta un semplice thriller. Miliardario, interpretato da attori al top del box-office internazionale, diretto da un regista più fortunato che bravo ma comunque fortunato, ammesso nell’impenetrabile Louvre per qualche ripresa notturna, con tutte le caratteristiche del kolossal, ma semplicemente un thriller.E qui casca l’asino. Perché, dal momento che la sceneggiatura di Akiva Goldsman ripercorre fedelmente l’itinerario del romanzo, se ne assume integralmente onori e oneri. Che, in poche parole, si può tradurre nell’obiettiva difficoltà di portare in immagini un romanzo che, a ben guardare, è un thriller soltanto nello spunto di partenza, in qualche episodio collaterale e nel prefinale. Per il resto è una disquisizione verbosa e francamente confusa, al limite della farneticazione, su argomenti che nel corso dei secoli hanno retto ad attacchi ben più meditati e pericolosi. Ron Howard, che lavora bene quando (come in «A Beautiful Mind») può contare su una sceneggiatura brillante, non è avvezzo al thriller e non possiede un tocco personale che possa illuminarne lo stile. Così «Il codice Da Vinci» risulta troppo lungo, saltuariamente noioso, tecnicamente ordinario e alla fin fine inutile. Come Tom Hanks, imbalsamato nel ruolo troppo ordinario di Robert Langdon. Come Paul Bettany, talmente diabolico nel ruolo di Silas da sembrare un compendio in edizione economica de «Il nome della rosa». Come Audrey Tautou, che cerca senza riuscirvi di liberarsi della pesante eredità di Amelie. Talenti sprecati.

Alla fine, restano tre domande che non saranno fondamentali ma ci permettono, al pari di Dan Brown, di suscitare curiosità. Se accanto a Gesù siede la Maddalena, chi dei dodici resta escluso dal cenacolo di Leonardo? Se il semplice ritrovamento del sepolcro di Maria Maddalena renderà l’umanità libera, qualcuno dovrebbe spiegarci in cosa dovrebbe consistere questa libertà. E soprattutto se (come più volte adombrato nel film) Gesù Cristo fu soltanto un uomo, perché il priorato di Sion si affanna tanto a proteggerne la stirpe? Pentole e coperchi: questi sì che «Il codice Da Vinci» ha saputo rappresentare alla perfezione.

IL CODICE DA VINCI (The Da Vinci Code) di Ron Howard. Con Tom Hanks, Audrey Tautou, Ian McKellen, Jean Reno, Paul Bettany. USA 2006; Thriller; Colore

Le «bischerate» di Dan Brown in puro stile hollywoodiano