GRINDHOUSE – A PROVA DI MORTE

DI FRANCESCO MININNI

E’ probabile che il citazionismo funebre stia diventando il marchio di fabbrica di Quentin Tarantino. Funebre non perché sancisca la morte di qualcosa ma perché, credendo di rendere omaggio a film e autori che comunque avevano una ragione di vita, ottiene un’imbalsamazione tipica di un museo delle cere. «Grindhouse» (cinema di periferia nei quali si proiettavano i film di serie B cui l’autore, sentendosene allievo, vorrebbe rendere omaggio) è il tipico esempio di come un eccesso di cinefilia possa portare all’autodistruzione. A parte il fatto che accomunare «Punto zero» di Sarafian (la Dodge Challenger che le ragazze usano per sfrecciare sulla Highway), «L’uccello dalle piume di cristallo» di Dario Argento (il tema musicale di Ennio Morricone sui fermi immagine delle foto scattate da Stuntman Mike alle vittime potenziali), Lenzi, Fulci, Corman e mille autori sconosciuti che solo Tarantino conosce, crea in partenza un effetto minestrone dove non si capisce più cosa ci fosse già e cosa (se c’è) ci sia di nuovo, resta la precisa impressione di un film inutile che sarà adorato dai fan e ignorato dagli altri.

Stuntman Mike frequenta locali come il «Texas Chili Parlor» dove punta le sue vittime, le insegue su una Highway stranamente deserta e le uccide provocando sanguinose carambole automobilistiche da cui esce ancor più stranamente vivo (indenne era chiedere troppo alla fortuna). Capita però il giorno in cui le vittime designate, sul modello delle prostitute di «Sin City», siano tutt’altro che disposte a subire senza reagire. Così per Stuntman Mike arriverà l’ora della sconfitta. Se ci chiedete «Tutto qui?» vi rispondiamo che sì, è tutto qui. E che a noi non basta per continuare a definire Tarantino maestro di qualcosa che non sappiamo. Questo ragazzaccio che sa di cinema e talvolta riesce a dare un’impronta personale ai deliri di violenza che racconta, ha visto e metabolizzato troppi film per riuscire a liberarsi dalle immagini altrui e tornare alle proprie. Tra l’altro «Grindhouse» nasce come film a quattro mani: «Death Proof» avrebbe dovuto essere proiettato insieme a «Planet Terror» di Robert Rodriguez (tutt’altra cosa: una storia di zombie). Ma poi, per motivi di metraggio, i due episodi sono diventati due film autonomi (dove «autonomi» potrebbe essere il massimo dell’ironia). E così ci troviamo a dover giudicare un film che, fosse stato diretto da un anonimo John Doe, sarebbe stato massacrato da chiunque; siccome invece è firmato (griffato, potremmo dire) da Tarantino, merita rispetto e attenzione. Noi non spariamo a zero per il gusto di farlo, ma nel caso specifico ci possiamo sbilanciare. Il primo segmento di «Grindhouse» naviga in un oceano di noia dal quale né occasionali esplosioni di violenza né un inseguimento con donna sul cofano particolarmente ben girato né la truce inespressività di Kurt Russell nel suo primo ruolo di malvagio da fumetto riescono a salvarlo. Tarantino si riconosce nel citazionismo sfrenato (che però stavolta non è inserito in un racconto, ma è il racconto stesso), nei dialoghi più che coloriti affidati interamente a personaggi femminili, nell’alternanza di accelerazioni e frenate che dovrebbero fare ritmo e nell’attrazione fatale per scene di violenza estrema raramente benedette dall’ironia. Si potrebbe dire che, dato il tipo di film, concepito espressamente come un omaggio a chi forse meriterebbe soltanto oblio, si tratta di un risultato prevedibile in attesa di un Tarantino vero. Se però il suo prossimo film sarà, come sembra, il remake di «Quel maledetto treno blindato» di Enzo G. Castellari, dovremmo seriamente chiederci se tali maestri non abbiano gli allievi che meritano.

GRINDHOUSE – A PROVA DI MORTE (Grindhouse – Death Proof) di Quentin Tarantino. Con Kurt Russell, Rosario Dawson, Vanessa Ferlito, Sydney Poitier. USA 2007; Thriller; Colore