SPEED RACER

DI FRANCESCO MININNI

Mettiamola così: se, dovendo affrontare Michelangelo, ci preoccupassimo esclusivamente della tecnica pittorica, sarebbe del tutto indifferente se l’artista avesse dipinto il Giudizio Universale o una lattina di Coca Cola. Larry e Andy (i Wachowski Brothers, come amano definirsi) hanno puntato proprio su questo per «Speed Racer», ispirato a un «anime» (per chi non lo sapesse, un cartoon giapponese) di grande successo, «Go Go Mach 5» (in Italia «Superauto Mach 5»), di quasi vent’anni di età. Hanno fatto miracoli con la tecnologia digitale, l’alta definizione, un nuovo sistema per riprendere le location a 360°, l’interazione tra riprese dal vero e virtuali con un solo scopo: ottenere un film che non parla di niente ma che viaggia a 400 miglia all’ora. Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio sulla reale profondità tematica della trilogia di «Matrix», «Speed Racer» dovrebbe contribuire a dissiparli. I Wachowski Brothers non sono né filosofi né sociologi né mistici: sono due ragazzini terribili che sanno tutto della Play Station.La storia non è difficile da raccontare: Speed Racer è il discendente di una famiglia nata tra i motori e, nel ricordo del fratello Rex accusato di slealtà e poi tragicamente scomparso, sogna di vincere il Grand Prix. Tutto gli sarebbe più facile se accettasse l’offerta del boss Royalton: ma la sua indole indipendente lo spinge a fare tutto in famiglia, con papà Pops, la mamma, un fratellino invadente e uno scimpanzè. Poi ci sono il pilota mascherato Racer X, un team giapponese, il super campione Gray Ghost e mille tornanti con la morte in agguato. Tutto sommato non è difficile immaginare come andrà a finire.

La riflessione su «Speed Racer», al di là dell’eccellenza tecnica che potrebbe comunque risultare fine a se stessa, nasce da «Matrix». Là i Wachowski avevano, almeno inizialmente, l’astuzia di infarcire la storia di elementi apparentemente degni di nota che, evoluzioni acrobatiche a parte, non mancarono di scatenare esegeti, lettori simbolici, sociologi e quant’altro. Va da sé che, strada facendo, Neo e compagni perdevano di spessore lasciando il posto a meraviglie tecniche. Qui, invece, gli stessi Wachowski si disinteressano completamente di dare alla storia motivazioni diverse da quelle di suoni, colori, virtuosismi e prodigi dell’alta definizione. Come dire che oggi, rispetto a nove anni fa (non cento: nove), si è ulteriormente abbassata la soglia dell’interesse per qualcosa che vada oltre la mera apparenza. Cioè, se nel 1999 ci si poteva ancora disturbare a dare un’occhiata a qualche manuale di filosofia (sia pur molto condensato), nel 2008 si va direttamente alla consolle della sala comandi, si accendono tutte le luci e si butta via la chiave della biblioteca.

Di sicuro Emile Hirsch ha faticato meno a interpretare Speed Racer che il ragazzo di «Into the Wild», mentre Christina Ricci ha faticato più che altrove per la dieta ferrea cui sembra essersi sottoposta per entrare nei panni della fidanzata. Susan Sarandon e John Goodman (mamma e papà) saranno ricordati per altri film. E d’altronde «Speed Racer» non è concepito come banco di prova per interpreti di buona scuola, se è vero che alla fine è lo scimpanzè a fare la figura migliore (i caratteristi, la forza del cinema americano). Ci sembra insomma che tanto dispendio di denaro e creatività (che c’è, nessuno lo nega), siano assolutamente ingiustificati rispetto a un risultato finale che parla la lingua ormai universalmente diffusa del conformismo culturale. La confezione luccica, tutto il resto è noia.

SPEED RACER (Id.)di Larry e Andy Wachowski.Con Emile Hirsch, Christina Ricci, Matthew Fox, Susan Sarandon, John Goodman.USA 2008; Avventura; Colore