GOMORRA

DI FRANCESCO MININNI

Il romanzo di Roberto Saviano «Gomorra» è diventato un caso. Documento, radiografia, praticamente un reportage sulle attività a largo raggio della camorra, è opera di un autore ben consapevole dei rischi cui andava incontro: il fatto che oggi Saviano non possa girare senza scorta, la dice lunga su quanto la criminalità abbia gradito l’iniziativa. Trarre un film da un libro del genere poteva creare molte complicazioni: non soltanto per motivi di sicurezza, ma proprio per motivi che chiameremo artistici, ovvero di approccio alla materia. Si poteva scivolare nei tempi e nei modi della fiction televisiva, allestire un poliziottesco sulla falsariga di padrini, mammasantissima e consiglieri, o più semplicemente rifare cose già fatte. Matteo Garrone, invece, ha fatto quel che doveva. Molto attento a certe storture del mondo contemporaneo, già avvicinatosi alla questione meridionale con «L’imbalsamatore», tutt’al più a rischio soltanto per quanto riguarda una certa tendenza all’iperrealismo, l’autore ha scelto sei personaggi emblematici e, semplificando l’affresco di Saviano, ha realizzato un film che forse non è (né voleva essere) bello, ma che sicuramente è necessario.

Le vicende ruotano intorno al quartiere tragicamente noto di Scampia. Senza forze dell’ordine, in campo sono soltanto quelli che decidono e quelli che subiscono. Totò, che consegna la spesa dal negozio della madre e sogna di entrare nel giro giusto. Maria, che non può uscire di casa perché il figlio si è associato ai cosiddetti «scissionisti». Don Ciro, un portasoldi che crede di essere al di sopra delle parti. Franco, che si occupa dello smaltimento dei rifiuti tossici e insegna il mestiere a Roberto. Pasquale, un bravo sarto che accetta di dare lezioni ai cinesi clandestini e per questo si ritroverà a guidare i camion della camorra senza possibilità di scelta. Infine Marco e Ciro, due cani sciolti che non hanno capito la regola fondamentale: nessuno decide niente per se stesso, c’è sempre qualcuno che dispone e che va ascoltato (ubbidito? è lo stesso).

Si noterà che in «Gomorra» non si fa alcun accenno al problema dei rifiuti ordinari. Verrebbe da pensare che quanto c’è basti e avanzi per rappresentare un mondo che forse oggi è contento della spazzatura che permette di stornare l’attenzione da altro. Garrone rappresenta tutto senza eccedere: niente colore locale (quale?), niente folklore (quale?), niente San Gennaro (abita altrove), niente vicoli formicolanti di vita. La Napoli di «Gomorra» è una via di mezzo tra un carcere a cielo aperto, dove le brave persone sono i reclusi e i delinquenti le guardie, e un’architettura kafkiana nella quale si aggirano tanti K senza identità. In questo senso il film sembra più un telegiornale alternativo: scritto, prodotto e diretto dalla cupola del crimine, con sentiti ringraziamenti alle forze dell’ordine per non essere intervenute. Certo, tra comportamenti abnormi presentati con la specifica della naturalezza e vite perdute che cadono senza un perché, si arriva alla fine col fiato grosso. E non si può invocare il fatto che queste persone ci siano nate e cresciute: a chi nasce con una malformazione cardiaca si prestano tutte le cure possibili.

Da rimarcare le interpretazioni di tutti gli attori, professionisti e non. Una particolare segnalazione per Toni Servillo (Franco), Gianfelice Imparato (don Ciro) e soprattutto Salvatore Cantalupo (Pasquale il sarto). Alla fine di tutto, chi deve riflettere seriamente sono quelli che dovrebbero fare qualcosa. Indignarsi non basta più.

GOMORRA di Matteo Garrone. Con Toni Servillo, Gianfelice Imparato, Maria Nazionale, Salvatore Cantalupo. ITALIA 2008; Drammatico; Colore