ONCE

di Francesco Mininni

«Once» di John Carney è un film piccolo, indipendente, addirittura marginale. Eppure ha vinto un Oscar per la miglior canzone («Falling Slowly»), ha incassato quasi 10 milioni di dollari sul mercato statunitense ed è distribuito in Italia dalla Sacher di Nanni Moretti. E allora vediamo cosa possa aver tanto interessato gli esperti del settore e il grande pubblico. Nessuna meraviglia tecnica: Carney ha girato il film nelle strade e in ambienti non ricostruiti, con una pellicola qualunque, senza effetti speciali, limitandosi a pedinare i suoi personaggi, a farli suonare e cantare, a farli vivere senza interventi dall’esterno. La storia non è di quelle che colpiscono la fantasia a prima vista: Glen ripara aspirapolvere insieme al padre a Dublino, ma dedica ogni momento del tempo libero alla sua chitarra. Di giorno suona le canzoni che la gente vuole ascoltare, racimolando qualche soldo per strada. Di notte suona le canzoni da lui stesso composte. È così che incontra Markéta, immigrata ceca che ha una figlia e una madre a carico, un marito lontano e una passione per il pianoforte. Dopo qualche assolo e molti duetti, la decisione di organizzare una band per incidere un demo che potrebbe suscitare l’interesse di qualche discografico. Certo, tra Glen e Markéta potrebbe nascere un sentimento. Ma lei è frenata dal pensiero del marito lontano e lui, rispettandola, non insiste. Finirà in musica: il demo pronto, un biglietto per Londra, il ritorno del marito e, in ricordo di qualcosa di bello, un pianoforte per la ragazza.

Se ci limitassimo alla disamina della vicenda così com’è, «Once» potrebbe essere una replica in piccolo di film come «The Commitments» o «The Snapper». Se invece vogliamo disturbarci nel tentativo di una lettura più complessa, bisogna riconoscere che «Once» è una boccata d’aria pura. Senza invocare pretese sociologiche, esistenziali o politiche, Carney, con semplicità e passione, ci parla della vita, di come ci sia ancora gente capace di credere in un sogno senza sporcarlo con la realtà, di come la musica (tutta la musica) sia capace di aggregare e di far sì che spiriti affini, incontrandosi, si riconoscano. Tutto questo proprio mentre in America Michel Gondry, on «Be Kind Rewind», riunisce tutto un quartiere intorno a un lenzuolo sul quale si proietta un film. Diciamo che, sia pure in un eccesso di semplificazione che sembra ignorare (voler ignorare) i problemi della vita vera, Carney preferisce il bicchiere mezzo pieno indicando una via che comunque è una risposta precisa a un panorama cinematografico decisamente cimiteriale. Tra sparatorie, violenze di ogni genere, pessimismi senza speranza che diventano rapidamente maniera, mancanza di umanità, crudeltà a diversi livelli (cioè niente di diverso da quanto si può leggere sulle prime pagine dei giornali), Carney sceglie la vita. E decide che una vita senza musica non vale la pena di essere vissuta.

In questo percorso lineare, che diventa profondo solo con il contributo dello spettatore, Glen Hansard e Markéta Irglovà (che chiamiamo con i nomi di battesimo, mentre nel film sono soltanto Guy e Girl, cioè ragazzo e ragazza) sono i non attori ideali per condurci a credere che sia tutto vero. E noi lo crediamo volentieri, nella consapevolezza che se non si comincia dalle cose piccole, alle grandi non arriveremo mai.

ONCE (Id.) di John Carney. Con Glen Hansard, Markéta Irglovà, Hugh Walsh, Gerard Hendrick. IRLANDA 2006; Drammatico; Colore