FUNNY GAMES

DI FRANCESCO MININNI

Undici anni fa «Funny Games» dell’austriaco Michael Haneke fece scalpore per il modo di rappresentare la violenza, per il cinismo di un punto di vista più tecnico che etico, per una sorta di beffarda comparazione tra verità e finzione. Si tirava in ballo «Arancia meccanica» di Stanley Kubrick: quanti anni fossero passati, se fosse cambiato qualcosa, se i ragazzi gelidi di Haneke fossero una degenerazione di Alex, eccetera eccetera. Come che fosse, i conti si fanno adesso che Haneke ha diretto un remake del proprio film destinandolo specificamente al mercato americano. E non è un remake «libero», come abitualmente si fa: l’autore, cambiati soltanto gli attori, ripropone la stessa storia in un’ambientazione analoga, fors’anche con le stesse inquadrature. Se ne deduce quindi che il suo pensiero non è cambiato e che ha voluto lui stesso dirigere il film per evitare che, venduti i diritti e affidato il timone ad un altro, il senso della storia fosse (di poco o di tanto) modificato.

Ritroviamo la famiglia in vacanza (il padre George, la madre Ann, il figlio Georgie e un cane) in riva a un lago, i vicini di casa ognuno con la sua villetta e la sua barca a vela, un’apparente tranquillità che equivale a freddezza, praticamente tutto asettico come uno studio televisivo. In questa «perfezione» irrompono due giovani sociopatici, Peter e Paul (che tra sé si chiamano Tom e Jerry): educati, vestiti di bianco, sorridenti. Dalla richiesta di quattro uova all’inizio dell’incubo il passo è breve. La famiglia, dopo l’uccisione del cane, è sequestrata, chiusa in casa e costretta ai giochi divertenti del titolo. Alla base di tutto una scommessa lanciata dai ragazzi che prevede che entro le nove del mattino dopo tutti i componenti della famiglia saranno morti.

Haneke non ha alcuna intenzione di prendere una posizione morale sulla vicenda raccontata. Agisce invece a livello tecnico e narrativo per mettere in guardia gli spettatori dall’eventualità di essere manipolati. Come dire: vi racconto una storia nella quale è fin troppo evidente che si debba stare da una parte invece che da un’altra, ma così facendo vi dimostro come sia possibile, usando i mezzi tecnici a disposizione, pilotare la vostra emotività e farvi conoscere terreni inesplorati (ovvero alcuni meandri della vostra mente). Teoricamente interessante, all’atto pratico il giochetto si rivela piuttosto pericoloso. Haneke usa tutto quel che ha: il camera look (ovvero l’attore che guarda in macchina), le battute rivolte direttamente al pubblico («a questo punto vi aspettereste che la storia prenda una piega…»), addirittura il telecomando per far tornare tutto indietro al momento in cui Ann imbraccia il fucile e uccide uno dei due. Non si capisce bene, però, se il lavoro di Haneke sia dettato da volontà di critica o da una raffinata forma di sadismo nei confronti del pubblico (che è sia quello presente in sala sia la famiglia minacciata). Vorremmo dire, insomma, che l’intento pedagogico dell’autore è forse troppo intellettualistico e che finisce comunque per scontrarsi con gli angoli oscuri di una storia che forse metterà in guardia le persone perbene, ma che con altrettanta forza (forse anche maggiore) potrebbe stimolare qualche cervello fragile, che in Peter e Paul potrebbe addirittura vedere un modello da imitare. In un certo senso «Funny Games» ha qualche analogia con i primi quarantacinque minuti di «Arancia meccanica»: meno coinvolgente, meno scenografico, meno brillante, ugualmente pericoloso.

FUNNY GAMES (Funny Games U.S.) di Michael Haneke. Con Naomi Watts, Tim Roth, Michael Pitt, Brady Corbet. USA/F/GB/A/GER/I 2007; Drammatico; Colore