UOMINI CHE ODIANO LE DONNE

DI FRANCESCO MININNI

Il fenomeno letterario rappresentato dallo svedese Stieg Larsson è sicuramente uno dei più eclatanti degli ultimi anni. La trilogia «Millennium» ha venduto tante di quelle copie in tutto il mondo da rendere praticamente imprescindibile l’incontro con il cinema. Ma è anche vero che le dimensioni dei romanzi (500 pagine il primo, tanto per gradire) devono aver costretto gli autori del film a un faticoso lavoro di compressione che talvolta porta a risultati interlocutori.

Cosa che accade puntualmente in «Uomini che odiano le donne», diretto da Niels Arden Oplev e trasformatosi, cammin facendo, in una sorta di kolossal del thriller con molti luoghi comuni e qualche felice notazione ambientale.

Il giornalista Mikael Blomkvist, in predicato di essere incarcerato per aver diffamato un magnate accusandolo di manovre eversive, è contattato dal ricchissimo industriale Henrik Vanger che è da anni alla ricerca della nipote Harriet, misteriosamente scomparsa.

Nel gelo della vasta tenuta (ma anche dei rapporti tra i vari membri della numerosa famiglia) Blomkvist indaga prima da solo, poi con la collaborazione di una hacker professionista, Lisbeth Salander, ricostruendo faticosamente il puzzle di un doloroso passato. La soluzione svelerà pesanti tare familiari, il minaccioso incombere di scomodi fantasmi del passato e una sorpresa non necessariamente sconvolgente.

Francamente il dato più rilevante del film di Oplev è rappresentato dalle atmosfere nordiche che, tra neve e ghiaccio, fa da contraltare ideale alla situazione familiare dei Vanger.

È indiscutibile che, nonostante la durata, il film si lasci seguire con un certo interesse anche in virtù di un affascinante gioco di ricostruzione del passato mediante ricordi e fotografie che concorrono a ricomporre il quadro e a svelare la verità. Ma è anche vero che «Uomini che odiano le donne» sembra soffrire di un andamento sbilenco: da una parte l’indagine poliziesca tradizionale, dall’altra un fitto scambio di simbologie tra passato e presente che alla fine risente della mancanza di approfondimento a beneficio dell’intreccio.

In questo senso il personaggio più penalizzato è quello di Lisbeth, che passa da un trauma all’altro alla velocità della luce finendo per rappresentare tutto ciò che nel film, rispetto al libro, non è stato detto: la parte riguardante il suo difficile rapporto con il tutore sembra addirittura uscita da un’altra storia. Alla radice di tutto, in realtà, c’è la tendenza che potrebbe essere tipicamente nordica a rappresentare i rapporti tra i sessi con una certa ruvida brutalità: nel caso specifico sembra addirittura che non sia previsto un altro tipo di approccio e che la donna, indipendentemente dal ceto sociale, non sia altro che un oggetto di violenza dovuta a repressioni di ogni genere.

E ciò nonostante è proprio Lisbeth il personaggio centrale del film, non foss’altro perché il giornalista Blomkvist sembra davvero passivo di fronte ai diversi avvenimenti che si trova a dover fronteggiare. Questo, naturalmente, è dovuto al fatto che Noomi Rapace dà di Lisbeth una caratterizzazione convincente, mentre Michael Nyqvist non è in grado di sollevare Blomkvist dalla mediocrità. Quanto alla famiglia Vanger, a parte il fatto che di nidi di vipere sono pieni i libri di storia, c’è da dire comunque che riesce a trasmettere una certa inquietudine nella rappresentazione di un centro di potere che, in un modo o nell’altro, ha necessità di nutrirsi della vita altrui per prosperare e perpetuarsi.

Certo, se un film del genere fosse stato realizzato in America ne sarebbe uscita la storia del solito serial killer. Così, almeno, c’è un po’ di materiale su cui riflettere.

UOMINI CHE ODIANO LE DONNE(Män som hatar kvinnor), di Niels Arden Oplev. Con Michael Nyqvist, Noomi Rapace, Lena Endre, Sven Bertil-Taube.