BASTARDI SENZA GLORIA

DI FRANCESCO MININNI

Quentin Tarantino ci costringe continuamente a ripercorrere il monologo di Amleto: essere o non essere? Tutto in nome del cinema o meglio un po’ di misura? Se ci si lamentava di «Jackie Brown» perché, privo di eccessi, non era riconoscibile come suo, perché continuare a lamentarci degli eccessi di «Kill Bill» che lo rendevano invece inconfondibile? Credeteci, con lui è sempre un brutto affare. Perché, a differenza di altri costruttori di massacri, Tarantino ha anche un gusto e una finezza che proprio non consentono di cavarsela con un semplice «prendere o lasciare». Non si può. C’è molto da prendere e qualcosa da lasciare. Bisogna distinguere attentamente tra le sparate di un ragazzaccio schizzato e le geometrie di un appassionato amante del cinema. Tanto più in «Bastardi senza gloria», che allinea senza remore il meglio e il peggio del suo cinema. Perché, una volta tanto, ci è parso che il meglio fosse preponderante.

A cominciare dall’inizio, folgorante, con la presentazione di Hans Landa, ufficiale nazista soprannominato «cacciatore di ebrei», che conduce serrati interrogatori come fossero amabili chiacchierate e porta l’interlocutore a confessare confondendolo con una logica glaciale e una crudeltà silenziosa. Dal massacro si salva una ragazza ebrea, Shosanna. La ritroveremo a Parigi a gestire una modesta sala cinematografica nella quale, per tante ironie del destino, sarà programmata la grande prima di un film di propaganda nazista che prevede la presenza di Hitler, Goebbels, Goering e Bormann. Un’occasione troppo unica perché i «bastardi senza gloria» (un commando di ebrei americani cacciatori di nazisti) se la lascino sfuggire. Così Aldo l’Apache, Hugo Stiglitz, il Piccoletto, l’orso ebreo e gli altri commilitoni si infiltrano tra il pubblico e attendono il momento di agire…

Ci sono tante altre cose nel film: la brutta abitudine dei «bastardi» di fare lo scalpo ai nazisti uccisi, un frenetico valzer di traditori e collaborazionisti, una scarpetta molto simile a quella di Cenerentola, il gioco dei nomi che propone il generale Ed Fenech e due finti italiani che si presentano come Enzo Girolami e Antonio Margheriti, un Hitler da cabaret che sembra un nevrotico pupazzo, massacri e violenze di ogni genere. Ma, alla base di tutto, più e meglio che nelle altre opere di Tarantino, c’è il cinema che sconfigge la Storia. Non nel senso che, realizzando un film tanto surreale, l’autore si è fatto beffe della verità storica. Ma nel senso che è proprio dal cinema che Hitler e i suoi gerarchi sono sconfitti. Infatti non è tanto il citazionismo di Tarantino (pur esercitato con la più ampia libertà) a tenere banco, quanto il fatto che Hitler e i suoi sono uccisi dentro un cinema, che il via all’attentato è dato da Shosanna su pellicola inserita al posto del quarto rullo del film tedesco, che l’arma prescelta sono una serie di pellicole in nitrato d’argento (infiammabilissimo) poste dietro lo schermo. Insomma, è così che il cinema sconfigge la storia: perché in una sala cinematografica tutto può succedere, anche l’incredibile. Peccato che un messaggio così forte e non convenzionale sia qua e là indebolito dagli strani vizi di Quentin Tarantino: gli scalpi, i tatuaggi incancellabili, le esplosioni di violenza iperrealista, la mancanza di freni. Tarantino ce l’ha nel DNA. È talmente convinto che i western all’italiana, anche quelli brutti, siano capolavori e che Enzo G. Castellari (ovvero Enzo Girolami), regista di «Quel maledetto treno blindato» cui «Bastardi senza gloria» si ispira, sia un maestro, che proprio non gli è possibile soffermarsi a riflettere. È un istrione di classe, certo, ma quanto grande potrebbe essere senza scalpi e senza crudeltà gratuite, questo proprio non lo sa. E noi non glielo perdoniamo.

BASTARDI SENZA GLORIA (Inglorious Basterds) di Quentin Tarantino. Con Brad Pitt, Christoph Waltz, Diane Kruger, Eli Roth, Mélanie Laurent. USA 2009; Drammatico; Colore