RICKY

DI FRANCESCO MININNI

Che François Ozon, cineasta abitualmente esistenziale, surreale e talvolta criptico, si fosse improvvisamente convertito al buonismo e alla commedia fantastica con elementi assimilabili al cinema di Frank Capra, ci sembrava molto difficile. Per questo, abbiamo preso con beneficio d’inventario i proclami della stampa a proposito di «Ricky». E abbiamo fatto bene. Perché «Ricky», senza nulla togliere alle qualità del suo autore, è tutt’altro che una commedia ottimista. È un film surreale, certo, e si svolge quasi interamente all’interno di un sogno che solo alla fine scopriremo come tale. Ma anche così lancia segnali che soltanto in apparenza vanno verso direzioni positive. E soprattutto mantiene (per propria volontà) un’aura di ambiguità e non detto che corrisponde in pieno alle intenzioni dell’autore: Ozon non intende ergersi a paladino dell’unità della famiglia, ma piuttosto puntare l’indice su tutto ciò ruota attorno al problema lavorando più da intellettuale surrealista che da perito settore.

Così immagina la storia di Katie, madre di Lisa, che si innamora di Paco, vive con lui e resta incinta. Il bambino, Ricky, ha una peculiarità: le ali. Preso atto di questa eccezionalità, per Katie sarà un problema tenerlo lontano dalla curiosità della gente. E nel frattempo Paco se ne va da casa e Lisa sembra sempre più triste e preoccupata. Soltanto la «fuga» del piccolo dà una spinta al riavvicinamento del nucleo: Lisa, Paco e Katie si riuniranno (a quanto pare) per non separarsi.

«Ricky» è evidentemente un film tutto metaforico, nel quale il bambino rappresenta (a scelta) il diverso o un piccolo angelo mandato dal cielo a rimettere tutti di fronte alle proprie responsabilità. Nel qual caso, agli occhi del mondo, sarebbe comunque un diverso. Ne consegue che il discorso di Ozon tende principalmente a focalizzare la situazione del diverso in un mondo poco propenso ad accettarlo e comunque più interessato a farne un’attrazione da fiera che a comprenderne ragioni e necessità. E il fatto che la famiglia si ricompatti soltanto quando Ricky decide liberamente di andarsene, significa comunque che la felicità (parola grossa: meglio normalità) richiede il sacrificio di qualcuno. Anche riconducendo il tutto nell’ambito del sogno, la sostanza non cambia. Soprattutto perché Ozon, ovviamente, non ha alcuna intenzione di farci sapere come andranno le cose una volta che Katie si risveglia incinta. Potrebbe fare tesoro del messaggio inviatole, ma potrebbe anche cadere nei medesimi errori e ripetere la storia con un bambino che, naturalmente, non avrebbe le ali. Ozon non ha l’ottimismo nel DNA e preferisce lasciare tutta la storia nell’ambito del dubbio e dell’incertezza, dei quali si nutre dall’inizio della sua carriera.

Ci rimane pertanto l’impressione di un film molto triste nel quale la condizione umana è rappresentata come deficitaria, in un certo senso già scritta, che nemmeno un paio di ali potrebbero servire a modificare. In questo non c’è niente di male: ognuno ha le proprie opinioni e, anche potendole modificare, ha tutto il diritto di mantenerle inalterate. L’intoppo sta nel fatto che, mentre da una parte entra in un ambito semispirituale a lui poco familiare, dall’altra Ozon mantiene inalterati i tratti caratteristici del proprio stile, quindi del proprio mondo: persone tristi, ambienti quasi squallidi, realismo spesso ruvido e talvolta brutale.

Non a caso la crescita delle ali di Ricky è mostrata in tutti gli stadi successivi, i primi dei quali (senza piume) sono tutt’altro che giocosi e poetici. Insomma, mentre Ricky tenta di guadagnare il cielo, Ozon preferisce rimanere con i piedi ben piantati sulla terra. Le due cose sono conflittuali e non giovano all’omogeneità di un film che avrebbe potuto avere un altro spessore.

RICKY (Id.) di François Ozon.Con Alexandra Lamy, Sergi Lopez, Arthur Peyret. FRANCIA 2009;Commedia; Colore