LO SPAZIO BIANCO

DI FRANCESCO MININNI

Luigi Comencini è stato autore di commedie («Pane, amore e fantasia»), drammi («Incompreso»), e persino polizieschi («La donna della domenica»), ma anche di inchieste di grande valore sociale e umano come «I bambini e noi». Ci piace pensare che alle figlie Cristina e Francesca abbia lasciato un po’ di questo e un po’ di quello.

A Cristina l’eredità della commedia e del dramma (più questo che non quella). A Francesca l’istinto del segugio a caccia di verità. Lo si capisce piuttosto bene da «Lo spazio bianco», che Francesca Comencini ha tratto dall’omonimo romanzo di Valeria Parrella e che corrisponde a un tentativo coraggioso e, ovviamente, imperfetto di indagare la maternità fuori da ogni convenzione, nel suo semplice rappresentare un’attesa. In quest’attesa, lo spazio bianco appunto, una donna ha tutto il tempo di interrogarsi che chi è, cosa vuole, quanto stia cambiando la propria esistenza, cosa implichi la responsabilità non più soltanto di se stessa, ma anche di un’altra vita. Si dirà che ci aveva già pensato Ingmar Bergman con «Donne in attesa». E che anche Mariantonia Avati, con «Per non dimenticarti», era tornata sull’argomento. Non c’è dubbio. Ma Francesca Comencini non considera né fonti né predecessori e, tanto per complicarsi la vita, sceglie un caso abbastanza estremo.

Maria, insegnante alle scuole serali, vive una vita non vuota, ma rigorosamente insoddisfatta. Single, non sappiamo se per scelta o fatalità, resta incinta di un ragazzo padre e, nonostante lui si dichiari non disponibile ad assumersi la responsabilità di una nuova paternità, decide di portare avanti la gravidanza. Irene nascerà prematura, di sei mesi, non permettendo alcuna certezza sulla sua sopravvivenza. Soltanto dopo cinquanta giorni di incubatrice sapremo se la sua destinazione sarà la vita o la morte. E Maria ha così tutto il tempo di interrogarsi, guardarsi allo specchio e, finalmente, confrontarsi con il resto del mondo. Il che, considerando la sua indole di tartaruga, è già una bella vittoria.

L’immagine del film è sicuramente Margherita Buy, quarantasettenne senza trucco che accetta un ruolo scomodo, altamente impegnativo e tale da richiedere la massima concentrazione per evitare mossette e luoghi comuni. E l’attrice, che comunque ha sempre mostrato una certa predisposizione a personaggi sofferenti, risponde al meglio aiutandoci a capire il film. Nel quale non si parla tanto di maternità come dono d’amore e richiesta d’impegno, quanto come individuazione di una ragione di vita, ovvero presa d’atto del fatto che si è al mondo per qualcosa di più dei nostri «semplici» problemi. Lo spazio bianco, che materialmente è l’abbagliante candore del reparto maternità, simbolicamente è un istante di attesa tra due parole o due periodi, quindi tra un modo di vivere e un altro completamente diverso. In questo spazio Maria capirà che, pur essendo insegnante, ha ancora tanto da imparare. È evidente che Francesca Comencini, nel suo programmatico laicismo, esclude ogni intervento che chiameremo spirituale («Lasciamo che i preti facciano il loro mestiere», dice Maria al primario che la sprona alla speranza). Ma non è un limite se non quando, nell’urgenza di mostrare quanto la donna sia sola con se stessa, l’autrice mostra una certa tendenza ad assommare episodi che dovrebbero chiarificare (la relazione con il medico, soprattutto) e invece sembrano soltanto pleonastici. Mentre, quando Irene apre finalmente gli occhi alla vita, allora sì che lo spazio bianco diventa veramente abbagliante, riportandoci alla mente il finale di «Mi piace lavorare» (2004) quando la mano della bambina che stringe quella della mamma equivale alla precisa risposta a una richiesta d’aiuto. «Lo spazio bianco» è ambientato a Napoli, senza Vesuvio né folklore né Pulcinella: si chiama semplicemente vita.

LO SPAZIO BIANCO di Francesca Comencini. Con Margherita Buy, Gaetano Bruno, Salvatore Cantalupo. ITALIA 2009; Drammatico; Colore